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Febbre del litio: la corsa all’oro bianco contagia l’Europa ma l’Italia resta indietro

Le chiamano, a buon diritto, “materie critiche” e il litio è una di queste. Parliamo di materiali fondamentali per la transizione ecologica e le industrie del futuro ma di critico c’è anche l’approvvigionamento, sempre più difficile da garantire visto il crescente appetito globale.

Il litio è essenziale per produrre le batterie dei veicoli elettrici la cui domanda mondiale, aumentata rapidamente negli ultimi anni, è destinata a crescere, considerando anche la proposta di bandire i motori termici in Europa a partire dal 2035. Ma questo metallo svolge un ruolo fondamentale anche nelle tecnologie che alimentano telefoni cellulari, computer, utensili elettrici e accumulatori di energia generata dagli impianti eolici e solari. Insomma è un materiale a cui difficilmente si può rinunciare, eppure perlopiù lo importiamo dall’estero. Motivo per cui molti Paesi produttori stanno valutando la nazionalizzazione di quest’industria, mentre l’Italia è ancora indietro.

Modelli latinoamericani
L’ultimo in ordine di tempo è stato il Cile, dove a fine aprile il presidente Gabriel Boric ha annunciato l’intenzione di nazionalizzare la locale industria del litio, la seconda per produzione mondiale dopo l’Australia con 180mila tonnellate all’anno. Nel 2021, il Paese sudamericano deteneva una quota del 26% dell’offerta globale di questo metallo, mentre il deserto di Atacama ospita il più grande giacimento singolo del mondo, con depositi stimati in 9,3 milioni di tonnellate. L’approvazione finale spetterà al Parlamento ma il piano di Boric prevede di rendere Santiago il primo produttore globale di litio, attraverso la costituzione di un’apposita azienda statale, lo sviluppo di nuovi giacimenti e una collaborazione tra pubblico e privato.

Una strada già tracciata dal Messico a febbraio, quando il presidente Andres Manuel Lopez Obrador ha affidato al ministero dell’Energia i depositi nazionali, dopo aver costituito la società LitioMX (Litio Para Mexico) per estrarre il minerale, i cui giacimenti nello stato di Sonora sono stati valutati nel settembre scorso pari a 653 miliardi di dollari. Qui l’unico progetto già in fase avanzata è il Sonora Lithium Clay Project, affidato alla cinese Ganfeng Lithium, attraverso le sue partecipazioni nelle aziende Bacanora Lithium e Sonora Lithium.

Un altro consorzio cinese si è aggiudicato a gennaio lo sviluppo dei depositi di litio della Bolivia, che secondo lo US Geological Survey detiene da sola il 23,6% del totale dei giacimenti globali. Pur ospitando le maggiori riserve al mondo, nel 2021 il Paese sudamericano ha prodotto “solo” 543 tonnellate di carbonato di litio, una quantità irrisoria rispetto alle 550mila dell’Australia. Ma La Paz è solo all’inizio: il governo boliviano ha promosso la firma di un accordo da oltre 1 miliardo di dollari per l’industrializzazione del settore tra la statale Yacimientos de Litio Bolivianos (Ylb) e il consorzio Cbc, controllato al 66% dal colosso cinese delle batterie Contemporary Amperex Technology Ltd (Catl) e dalle compatriote Cmoc Group e Guangdong Bangpu Cycle Technology. Un’intesa che, entro il 2025, dovrebbe permettere alla Bolivia di produrre 40mila tonnellate di carbonato di litio all’anno, pari all’attuale livello raggiunto dall’Argentina, che segue un modello completamente diverso.

Buenos Aires ha infatti decentralizzato la concessione delle licenze di estrazione e aperto il mercato ai privati, tutti stranieri. I due siti attualmente in fase di produzione, il Fénix project in Catamarca e la miniera del Salar de Olaroz in Jujuy, sono affidati rispettivamente alla statunitense Livent e all’australiana Allkem, mentre il terzo giacimento di Cauchari-Olaroz, dove l’estrazione comincerà nella seconda metà dell’anno, è stato concesso alla cinese Ganfeng Lithium in collaborazione con la canadese Lithium Americas Corp. Così l’Argentina, che sta valutando persino la costruzione di un “litiodotto” nel nord del Paese, intende portare la produzione nazionale a 120mila tonnellate entro il 2025, grazie agli investimenti esteri. Un modello abbandonato di recente dalla Serbia per motivi ambientali.

La dipendenza dell’Ue
Belgrado ha annullato a gennaio tutte le licenze di estrazione del litio dopo una serie di proteste contro l’inquinamento collegato al giacimento dell’australiana Rio Tinto sulle rive del fiume Jadar, dove il gruppo ha scoperto un nuovo minerale – la giadarite – che contiene elevati livelli di litio e boro, ideale per i produttori di batterie. Secondo un documento riservato trapelato nel 2021 e citato da Le Monde, i rappresentanti di Usa, Regno Unito, Banca mondiale e alcune case automobilistiche europee fecero pressioni sul governo serbo perché firmasse l’accordo con Rio Tinto nel 2017.

Ma perché l’Europa è tanto interessata al giacimento serbo? Perché ha bisogno di diversificare le proprie fonti di litio che, secondo un documento del 2020 della Commissione Ue, importa ancora per il 78% da altri continenti. Per questo, con la nuova direttiva “Critical Raw Material Act”, l’Ue intende estrarre più materie prime strategiche nel proprio territorio. L’interesse di Bruxelles è testimoniato anche dagli ingenti finanziamenti concessi nell’ambito di progetti come H2020 GeoERA FRAME allo European Institute of Innovation & Technology e allo European Lithium Institute. Le principali risorse continentali di questo minerale si trovano in Serbia, Portogallo, Spagna, Finlandia e Austria. Ma anche la Francia, secondo il Bureau de Recherches Géologiques et Minières, possiede vaste risorse di litio nel sottosuolo, in particolare nella fossa renana al confine con la Germania, dove il litio è disciolto in falde acquifere a elevate profondità.

Una situazione simile a quella dei potenziali giacimenti descritti in un articolo pubblicato lo scorso anno sulla rivista Minerals dagli scienziati del Cnr, Andrea Dini, Pierfranco Lattanzi, Giovanni Ruggieri ed Eugenio Trumpy. Secondo lo studio, in Italia «è presente un alto potenziale per risorse litinifere non convenzionali in fluidi profondi utilizzabili in modo sostenibile e con basso impatto ambientale». Si tratta di sali disciolti in acque a elevate profondità e temperature, riscontrabili in particolare nella «fascia vulcanico-geotermica peritirrenica» tra Toscana, Lazio e Campania e nella catena appenninica dal Piemonte orientale fino alla costa adriatica dell’Abruzzo. A differenza di quanto avviene in Australia, dove il litio si estrae dalle rocce, o in Sud America, dove si produce dalla salamoia emersa dall’evaporazione dei laghi salati, in Italia si tratterebbe di intercettare le fonti d’acqua ricche di questo metallo, “filtrandolo”, il che avrebbe un impatto ambientale molto minore rispetto ai metodi classici. Eppure lo sviluppo dei potenziali giacimenti italiani è ancora indietro: nel comune di Campagnano Romano, nel Lazio, Enel Green Power e l’australiana Vulcan Energy sono ancora in fase di ricerca mentre non esiste una legislazione aggiornata in materia, se non il Regio Decreto n. 1443 del 1927, che affida allo Stato la competenza sulle risorse minerarie. Insomma, siamo rimasti cent’anni indietro.

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