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Il secolo turco: ecco perché l’impero di Erdogan non morirà mai

Il 29 ottobre prossimo la Repubblica di Turchia compirà cento anni. Uno dei motti della campagna elettorale del presidente Recep Tayyip Erdogan per le presidenziali del 14 maggio è stato il «secolo turco» (Türkiye Yuzili), accompagnato dal verbo «si parte», (basliyor). Il presidente ha voluto sottolineare il proprio contributo nel rendere il Paese più sviluppato economicamente e più influente dal punto di vista internazionale, con un accento rispetto al raggiungimento di una certa autorevolezza in politica estera che lo avrebbe trasformato in una potenza regionale indispensabile, tale da definire un intero secolo e divenire protagonista del prossimo.

Ma per comprendere quanto effettiva e incisiva sia l’eredità di Erdogan in politica estera è necessario fare un passo indietro nella storia della repubblica turca.

Neutralità attiva
Nata nel 1923 dalle ceneri dell’Impero Ottomano, la repubblica di Turchia si è guadagnata i confini che oggi conosciamo sia con una strenua resistenza armata, negli anni immediatamente successivi al primo conflitto mondiale, sia con il pugno di ferro in sede diplomatica. Nel 1922 l’allora vicepresidente Ismet Inonu riuscì a strappare ai diplomatici europei il Trattato di Losanna, che definiva il territorio della neonata repubblica entro i confini della penisola anatolica, includendo anche i territori dell’est reclamati dalle minoranze curda e armena. Negli anni successivi il presidente e fondatore della Turchia, Mustafa Kemal Ataturk, intraprese un percorso di politica estera volta a difendere lo status quo, rinunciando a ogni tipo di attivismo rispetto ai territori ottomani persi – come gli attuali Iraq e Siria, secondo il motto: «Pace in casa, pace nel mondo».

L’establishment era consapevole che la posizione geografica della Turchia, a cavallo tra Occidente e Oriente, la rendeva particolarmente vulnerabile dal punto di vista della politica internazionale, pertanto un basso profilo avrebbe evitato di esporre il Paese a eventuali revisionismi sui confini. Ataturk morì nel 1938, poco prima dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale, ma la sua prudenza in politica estera venne portata avanti dal suo erede politico Inonu. Negli anni ’30 la Germania era il primo partner commerciale della Turchia, ma l’invasione della Cecoslovacchia nel marzo del 1939 portò la repubblica a cercare il sostegno di Regno Unito e Francia per evitare l’eventuale espansionismo delle potenze dell’asse, ma senza allearsi apertamente con nessuno. Poi, durante il secondo conflitto mondiale, la Turchia optò per un approccio definito di «neutralità attiva», una condizione che la mise nella posizione di ottenere vantaggi da entrambi i fronti in base all’andamento della guerra.

Basti pensare che nel 1939 ricevette armamenti dal Regno Unito e nel 1942 Berlino concesse ad Ankara crediti per l’acquisto delle proprie armi. Alla fine entrò nel conflitto soltanto il 23 febbraio 1945, al fianco degli Alleati, quando i Sovietici erano praticamente arrivati a 40 chilometri da Berlino.

Nuovi equilibrismi
L’atteggiamento di allora rievoca l’equilibrismo di Erdogan dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Da un lato, il presidente turco non ha nascosto le preoccupazioni circa l’espansionismo di Mosca e si è allineata alle posizioni della Nato, di cui fa parte dal 1952, attraverso il sostegno militare all’Ucraina con la fornitura di droni Bayraktar. Dall’altro, Erdogan ha scelto di non imporre le sanzioni economiche alla Russia, che è uno dei suoi partner commerciali ed energetici più importanti, e tiene costantemente aperto un canale di comunicazione privilegiato con il presidente russo Vladimir Putin, tanto da ritagliarsi il ruolo di mediatore per la risoluzione del conflitto in Ucraina. Uno dei maggiori successi della Turchia in questo senso è stato il contributo al raggiungimento dell’accordo per sbloccare il passaggio di decine di milioni di tonnellate di grano che attendevano da cinque mesi nei porti ucraini.

La cautela in politica estera e la ricerca di rapporti internazionali costruttivi aveva già caratterizzato i primi anni di governo di Erdogan e il suo partito, l’Akp (Partito della giustizia e dello sviluppo) a partire dal 2002. Tale politica fu riassunta nello slogan «Zero problemi con i vicini», il cui architetto fu l’allora ministro degli Esteri e membro influente dell’Akp, Ahmet Davutoglu. Declinando il tradizionale appeasement turco nel proattivismo diplomatico, tale atteggiamento puntava ad elevare la Turchia a potenza regionale in grado di influenzare i vicini mediorientali. In particolare, Ankara aprì le porte al commercio con l’Iran e cercò di promuovere il dialogo nell’ambito delle dispute tra Fatah e Hamas, Pakistan e Afghanistan, Siria e Israele. Inoltre, attuò una liberalizzazione dei visti e costruì rapporti amichevoli con molti Paesi che fino ad allora erano stati considerati nemici, come Damasco. Considerato il fiore all’occhiello della dottrina Davutoglu, la Siria fu invece il terreno di prova che dimostrò che tale atteggiamento non aveva sortito l’effetto sperato di rendere la Turchia il fulcro della politica mediorientale. 

Errori e fallimenti
Dopo le rivolte arabe del 2011 e dopo i vani tentativi di Erdogan di convincere il presidente siriano Bashar al-Assad a concedere riforme alla popolazione civile, i rapporti tra Siria e Turchia si sono rotti definitivamente nel 2013. Da partner privilegiato e garante della Siria nel quadro della politica regionale, la Turchia divenne uno degli oppositori più strenui di Assad, tanto da rappresentare un hub per la nascita e lo sviluppo delle opposizioni siriane, che si raggrupparono sotto l’ombrello della Free Syrian Army, supportata economicamente e logisticamente dallo stato turco. 

Lo scoppio della guerra civile siriana e la successiva insorgenza dello Stato Islamico hanno rappresentato uno spartiacque nella politica estera turca, rendendola più aggressiva. L’impossibilità di mediare con Assad e il disordine della regione mediorientale portarono a galla i limiti del tentativo di avere “zero problemi con i vicini” e anzi si faceva sempre più concreto il rischio che i problemi dei vicini si trasformassero in molti problemi in casa. Nel 2014 gli Stati Uniti supportarono il Partito dell’Unione Democratica (Pyd), affiliato siriano del Partito curdo dei lavoratori (Pkk), organizzazione separatista curda considerata terrorista sia da Ankara che da Washington, per estromettere l’ISIS dal nord della Siria. Questo incoraggiò la formazione di un’entità autonoma curda al confine meridionale della Turchia, considerata una minaccia all’integrità territoriale del Paese. A partire dal 2016, dunque, Ankara ha avviato una serie di vere e proprie operazioni militari attraverso le quali di fatto sono stati occupati pezzi di territorio siriano, contravvenendo del tutto alla dottrina Davutoglu. La maggiore aggressività della politica estera turca è coincisa anche con un calo del consenso nei confronti di Erdogan, il cui culmine era avvenuto nel 2013 con le proteste di Gezi Park, represse in maniera violenta. Per questa ragione molti analisti ritengono che la politica estera di Erdogan sia la diretta espressione della politica interna, ma in ogni caso è difficile ridurre i fattori che guidano le traiettorie esterne del governo turco ad un’unica ragione, vista la complessità politica, geografica e storica del Paese.

Sicuramente le maniere forti e la retorica bellica utilizzati dopo il 2016 sono anche legati alla politica interna, dal momento che il 15 luglio di quell’anno vi fu il tentativo di colpo di Stato attribuito ufficialmente a Fetullah Gulen, predicatore e sostenitore dell’Islam politico e precedentemente alleato di Erdogan. Gulen risiede in Pennsylvania ed è attualmente accusato di terrorismo, ma gli Usa si sono rifiutati di estradarlo, nonostante le richieste del governo turco. Questo ha portato all’approfondimento della frattura con gli Usa, cominciata con l’appoggio di Washington ai curdi siriani e portata all’esasperazione con l’annuncio di Ankara dell’acquisto del sistema missilistico russo S-400 nel 2019, di fatto una mossa incompatibile con il ruolo della Turchia all’interno della Nato. I problemi nell’alleanza non riguardano soltanto le ambiguità nei rapporti con la Russia, ma coinvolgono anche una serie di contrasti interni. Innanzitutto, vi sono le tensioni con la Grecia vista come rivale in ambito energetico ed egemonico rispetto all’area del Mediterraneo Orientale. In questo senso, a partire dal 2019 tra Ankara ed Atene si sono susseguite una serie di dichiarazioni sempre più violente per la rivendicazione dei confini marittimi.

In gioco ci sono in realtà i giacimenti di gas sottomarini, una questione che interessa la Turchia nell’ambito dei suoi investimenti nel settore energetico, che potrebbero realizzare l’ambizione del Paese a divenire un hub dell’energia al centro di Europa, Asia e Nord Africa. Dall’altro lato i contrasti all’interno della Nato si manifestano anche nell’ambito della richiesta da parte di Finlandia e Svezia all’interno dell’Alleanza in funzione anti-russa. Erdogan aveva espresso la disponibilità a concedere la membership ai due Paesi scandinavi a patto che venissero incontro ad alcune richieste rispetto all’estradizione di cittadini turchi considerati terroristi legati al Pkk o all’organizzazione di Gulen. Mentre il nodo con la Finlandia è finalmente stato sciolto, resta aperta la questione con la Svezia, i cui rapporti hanno continuato a deteriorarsi dopo che nel Paese alcuni cittadini svedesi hanno bruciato copie del Corano.

Autonomia e coerenza
Le tensioni all’interno della Nato sono in realtà il sintomo di un’insofferenza di Erdogan rispetto al fatto di voler imporre il proprio Paese come una media potenza in grado di portare avanti una politica estera completamente autonoma e volta a capitalizzare i successi a fini interni. E questo è evidente anche nelle altre circostanze citate. La frattura con gli Stati Uniti dovuta anche all’approccio con la Russia ha portato Washington a congelare le vendite dei caccia F-35 in dotazione a tutti i Paesi dell’Alleanza. Dopo un iniziale disorientamento, Erdogan è riuscito in realtà a ribaltare una situazione di svantaggio. Ha aumentato gli investimenti nell’industria della difesa nazionale, che in pochi anni è cresciuta soprattutto nell’ambito della costruzione di droni armati, i Bayraktar, che prima che in Ucraina erano divenuti popolari in Azerbaijan, visto il loro contributo al successo di Baku nel conflitto del Nagorno-Karabakh contro l’Armenia.

Il continuo bilanciamento tra Est e Ovest rientra dunque nel solco della continuità con il passato, ma in maniera più proattiva e aggressiva. Erdogan ha spinto la Turchia a sovraesporsi in molti spazi e questo ha portato a delle conseguenze imprevedibili e dannose, come avvenuto in Siria o anche nel contesto regionale quando, tra il 2017 e il 2021, la Turchia è stata isolata diplomaticamente a causa della retorica bellicosa più volte esposta nei discorsi del presidente. La proattività in politica estera ha portato il Paese ad essere influente anche in contesti che si spingono oltre il piano strettamente regionale. Talvolta si tratta di un’influenza economica, commerciale e culturale, come per i Balcani, per l’area dei Paesi dell’Asia centrale o per la Somalia. In altri casi si tratta di una presenza più consistente che coinvolge anche il dispiegamento di forze militari, come in Libia, dove la Turchia appoggia il Governo di accordo nazionale (Gna). 

Negli ultimi mesi però Erdogan ha cercato di abbassare i toni e ricucire molti dei rapporti che sembravano irreparabili. Basti citare il caso della Grecia, con la quale dopo il terremoto che ha colpito Turchia e Siria lo scorso febbraio i rapporti si sono scongelati, tanto che Erdogan ha inviato un telegramma al premier greco, Kyriakos Mitsotakis, in occasione della festa dell’indipendenza greca lo scorso 25 marzo. Inoltre, la Turchia ha annunciato di aver ripreso i rapporti con la Siria, dopo l’incontro tra i ministri degli Esteri di Turchia, Siria, Iran e Russia a Mosca tenutosi mercoledì 10 maggio. Una notizia che è arrivata a meno di una settimana da una tornata elettorale che vedeva Erdogan e il suo partito in forte difficoltà nei sondaggi. In realtà, nonostante Erdogan si sia fermato sotto la soglia del 50 per cento, ha ottenuto comunque al primo turno un risultato migliore rispetto al leader dell’opposizione, Kemal Kilicdaroglu, che era dato come favorito. Lo stacco tra i due è di quasi cinque punti, con percentuali rispettive di 49,54 e 44,92 per cento. Secondo gli analisti ci sono molte chance che il presidente turco vinca al secondo turno.

La direzione imposta dalla sua politica estera alla Turchia, dunque, potrebbe continuare nel percorso che alterna continuità e rottura con il passato. Tuttavia, anche se dovesse vincere il suo rivale Kilicdaroglu, difficilmente il suo approccio esterno muterebbe radicalmente, poiché per un Paese come la Turchia «la geografia è un destino».

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