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Milano, 1993: le vittime dimenticate della strage di via Palestro

Milano, 27 luglio 1993. Il capoluogo lombardo è ormai sfollato e più silenzioso. È sera e una coppia di passanti, che dapprima incrocia una donna misteriosa, costeggia via Palestro e il palazzo ospitante il Padiglione di Arte Contemporanea, sede delle collezioni civiche del Novecento, quando s’accorge che da un’automobile posteggiata – una Fiat Uno bianca rubata poche ore prima – fuoriesce del fumo e perciò si riversa su strada ad allertare una pattuglia della polizia municipale. Quest’ultima, presumendo un principio di incendio all’interno del veicolo, contatta la sala operativa richiedendo sul posto una squadra di vigli del fuoco. 

Comincia così un altro episodio di intimidazione allo Stato, in un momento storico di fondamentale impegno nel contrasto alla mafia. L’epilogo, ancora una volta, ha segnato l’Italia e la verità, ancora una volta, è un’illusione. E sono ormai trascorsi 30 anni. 

Il resto del racconto di ciò che è accaduto quella notte d’estate, alle ore 23.14, è tutto nello scatto del Gabinetto regionale di polizia scientifica per la Lombardia, pubblicato dal Corriere della Sera: un edificio collassato su stesso, come dopo un colpo di mortaio, rappresentante non più la cultura ma la sopraffazione criminale. 

Le vittime – i vigili del fuoco Carlo La Catena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno, l’agente di polizia municipale Alessandro Ferrari e Moussafir Driss, un cittadino del Marocco senza fissa dimora che dormiva su una panchina – sono le ultime della cosiddetta stagione delle stragi. Uomini per molto tempo dimenticati, a cui non è stato ancora dato l’atteso riscatto. 

«Eravamo legatissimi, uniti in tutto. Si era sposato tre settimane prima della strage, dov’è rimasto ucciso», dice a TPI Elisabetta Picerno, sorella di Stefano, 36enne al momento dell’uccisione.

Ciascuna vittima della strage di via Palestro ha alle spalle una storia non così dissimile da quella di qualunque altro giovane di oggi che sceglie di abbandonare la propria regione di appartenenza per cercare più possibilità altrove, nell’ottica di non vedere mai tradita questa speranza. 

«In quel periodo avevamo trascorso parecchio tempo insieme, è stato bellissimo. Tre anni prima era venuto a mancare un altro fratello. Non è stato facile. Aveva ottenuto il trasferimento e presto sarebbe tornato a vivere qui, nella sua Terni», racconta commossa la familiare della vittima, restituendo il particolare di un imprevisto che ha cambiato per sempre la sorte del pompiere.

«Tornato a Milano dal viaggio di nozze, sarebbe dovuto ripartire subito dopo per le ferie estive. Avevamo pianificato un viaggio insieme con i nostri camper, perciò avrebbe dovuto raggiungermi a Terni, ma un collega gli aveva chiesto di sostituirlo e Stefano aveva accettato. “Faccio questa sostituzione e domani mattina parto”, mi aveva detto, ma non ci siamo sentiti mai più». 

Quella notte di trent’anni fa, a tremare insieme a Milano è anche Roma. E non solo per via delle esplosioni, alle ore 00.03, davanti alla basilica di San Giovanni in Laterano e, pochi minuti dopo, nei pressi della chiesa di San Giorgio al Velabro, a pochi metri dal Campidoglio e dai Fori Imperiali: Palazzo Chigi teme un colpo di Stato. 

«Alla notizia della deflagrazione di una bomba a Roma, ci siamo attaccati all’edizione straordinaria del telegiornale. La diretta si era perciò allargata al racconto delle altre esplosioni, quindi su quanto fosse appena avvenuto a Milano. Così, improvvisamente, abbiamo saputo di Carlo e dei suoi colleghi. La comunicazione ufficiale l’abbiamo ricevuta intorno alle 3 del mattino», racconta a TPI Nicola Perna, cognato di Carlo la Catena – originario di Napoli, 25enne al momento dell’uccisione – e presidente dell’associazione Carlo La Catena Vigile del Fuoco, fondata nel 1994. 

«Giunti a Milano, ci hanno mostrato il luogo della strage: erano ancora in corso delle attività di spegnimento. Dopodiché qualcuno ci ha accompagnati all’obitorio per gli adempimenti del caso. Ci siamo ritrovati di colpo, come in un vortice, impreparati ad affrontare qualcosa del genere, ignoranti di cosa fosse la mafia. Non c’è stato un momento di riflessione nell’immediato, abbiamo realizzato l’accaduto solo dopo qualche mese», testimonia l’uomo, che confida: «Non c’è mai un momento di riconciliazione, la vita di prima non c’è più. È come un vaso rotto, si possono rimettere insieme i cocci ma rimane rotto». 

«Con le bombe del 1993 i boss tentarono di fermare la legislazione antimafia e il 41 bis, il carcere duro», ha dichiarato negli scorsi giorni ai microfoni Rai il direttore centrale anticrimine della polizia di Stato, Francesco Messina, tra gli investigatori che collaborarono fino alle condanne di boss e gregari. 

Con le stragi compiute e pianificate, nell’arco di undici mesi, dal 14 maggio 1993 al 14 aprile 1994, Cosa Nostra aveva avviato un’interlocuzione con il mondo politico e istituzionale, al fine di condizionare anche la normativa in materia di sequestro e confisca dei beni. 

Malgrado la sentenza definitiva e sebbene siano stati condannati mandanti ed esecutori, molte sono ancora le ombre. Nel 2017 la Procura di Firenze ha riaperto l’indagine a seguito delle intercettazioni di alcuni colloqui, in carcere, sostenuti dal boss palermitano Giuseppe Graviano, su chi aveva sostenuto i costi dell’intera campagna stragista. Molte le domande rimaste irrisolte, oggetto di indagine dei magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Firenze, i pubblici ministeri Luca Tescaroli e Luca Turco, che conducono l’inchiesta sui mandanti esterni. 

A Milano, dov’era la base delle operazioni dei soggetti che hanno dato sostegno logistico e manuale alla strage? Chi è la donna che ha posteggiato la Fiat Uno bianca? È la stessa che ha controllato le operazioni stragiste di Firenze? Chi si era riunito con i boss per decidere la strategia di attacco allo Stato? Chi ha suggerito di colpire il Padiglione di Arte Contemporanea? Qual è stato il ruolo dei protagonisti principali delle stragi, i boss Matteo Messina Denaro e i fratelli Graviano? 

Secondo il presidente Perna, «siamo troppo condizionati dai segreti di questo Stato. Forse, liberarcene potrebbe costituire un primo passo verso la verità. E non soltanto su via Palestro».

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