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Il grande equivoco da chiarire: la Palestina non è Hamas

Sono passati nove giorni da quando è cominciato il conflitto che ha prodotto più vittime nella storia della questione palestinese. I media hanno condiviso informazioni false e l’opinione pubblica in Occidente è divisa tra il chiamare i bombardamenti di Gaza un genocidio o una forma di “autodifesa”. Al momento in cui scrivo, lunedì 16 ottobre, sono morti più di 700 bambini sotto i missili dell’esercito israeliano. In 5 giorni, Israele ha lanciato più di seimila bombe, un totale di oltre quattromila tonnellate di esplosivi: quasi un quarto di una bomba nucleare.

Nel mentre, intellettuali, politici, diplomatici di ogni fronte sono stati intervistati, e ciascun palestinese che è stato interpellato ha dovuto far fronte alla domanda: «E Lei denuncia gli attacchi di Hamas?». I civili palestinesi, quelli che a Gaza sono sotto le macerie e che in Cisgiordania vengono decimati nel silenzio tra gli attacchi dei coloni, non hanno voce in capitolo. I civili israeliani sono stati, a ragione, intervistati perché raccontassero le indiscutibili brutalità subite; i civili palestinesi per 75 anni non sono mai stati interrogati sull’occupazione militare cui sono soggiogati e disumanizzati. 

I rappresentanti politici israeliani non devono rispondere alla domanda: «Lei condanna la violenza sistematica di Israele, da prima del 7 ottobre e dopo?», perché non viene posta. Ogni rappresentante palestinese si vede univocamente convocato al dibattito pubblico per sapere se si allinea con Hamas o meno. Significa imporre al popolo palestinese un’aspettativa di superiorità morale ed etica che non è richiesta al suo oppressore. Dare una piattaforma per far parlare il popolo palestinese solo in un contesto di reazione alla sofferenza di Israele, indica che l’opinione pubblica, di default, conferisce due standard diversi a esseri umani uguali.

E, per la cronaca, no: la maggioranza dei palestinesi non si sente rappresentata né da Hamas, né da Fatah, e non sono allineati ad alcun partito politico. Questo non significa che si oppongano alla resistenza. Il popolo palestinese – e non i gruppi militari – esercita innumerevoli forme di resistenza pacifica da oltre 50 anni, e, puntualmente, si vede umiliato e ridicolizzato quando cerca il dialogo con Israele. La resistenza pacifica, per intenderci, è il contadino che si reca nelle sue terre per lavorare, nonostante venga minacciato, torturato, attaccato da coloni e soldati per intimidirlo ad abbandonare i suoi campi.

Anime morte
Bissan Amira ha 20 anni, studia diritto internazionale umanitario ed è una rifugiata palestinese che abita a Betlemme. La famiglia di suo padre, di Gerusalemme, è stata sfrattata da casa sua molti decenni fa, e Bissan vuole lavorare nella diplomazia per difendere la causa palestinese. Non capisce come la sua gente possa essere chiamata “terrorista”: «Non vedono che tutto quello che è successo è una diretta conseguenza delle azioni di Israele? Non vedono che viviamo nel terrore costante, tra coloni israeliani armati che in tempi di “pace” ci attaccano senza ragione, e che da sabato scorso hanno ucciso a sangue freddo 56 palestinesi, dall’inizio dell’anno oltre 200?». Itamar Ben Gvir, ministro dell’Interno conosciuto per le sue posizioni segregazioniste, ha armato tutti i coloni esortandoli a uccidere chiunque sospettino essere un terrorista. La circolazione dentro e fuori le città e i villaggi è stata interdetta, e nessun palestinese può lasciare la Cisgiordania poiché la frontiera di Allenby Bridge con la Giordania è stata resa irraggiungibile. Bissan è completamente sotto shock, come del resto lo sono tutti i palestinesi.

Souhair Farraj , direttrice del centro per le donne nel campo profughi Dheisheh, Cisgiordania, mi racconta che vede solo anime morte intorno a sé. «Non c’è più vita nelle persone. Non ci saremmo mai immaginati di vedere tutto questo spargimento di sangue. Tutti hanno messo la loro vita in stand-by, a guardare il giornale in attesa del peggio». Souhair non appoggia nessuno dei gruppi paramilitari e non sopporta che il mondo non veda una differenza tra loro e il popolo palestinese. «Questi gruppi non sono solo un male per l’opinione pubblica estera, ma anche e soprattutto per la nostra politica interna: è proprio la frammentazione in tutte queste fazioni che ci tiene divisi come palestinesi». Per quanto lei non sia allineata con Hamas, non pone sul gruppo militare la responsabilità di quello che sta succedendo: «I miliziani non sono altro che ragazzini e bambini cresciuti nel trauma del terrore degli attacchi costanti di Israele. Israele ha generato il suo nemico».

Sua figlia doveva sposarsi ieri, ma il futuro marito è stato arrestato – non si sa dove – senza capi d’accusa, mentre si recava alla cerimonia. Ora è parte delle altre migliaia di prigionieri palestinesi tenuti in carcere senza dichiarazione di reato attraverso l’uso aleatorio delle “detenzioni amministrative”. 

Pentola a pressione
Zainab al-Ghunaime è un’attivista per i diritti umani e delle donne a Gaza. Nei pochi messaggi che siamo riuscite a scambiarci, sento la desolazione nella sua voce. Foto sfocate prese da vicino con mani tremanti mostrano l’ineffabile. Pezzi di esseri umani, bambini, trucidati su strade distrutte da bombe lanciate su ambulanze, veicoli di evacuazione, e ospedali.

«​​Siamo in una grande prigione a cielo aperto dal 2007 – nel 2023 abbiamo già ricevuto minacce e razzi su Gaza, nel 2022, nel 2021, nel 2020 etc, abbiamo avuto attacchi su Gaza. Ci hanno distrutto le strade e bombardato le case di civili innocenti che non hanno nulla a che fare con la politica. Io stessa ho perso mia nipote e la sua famiglia, ho perso altre 4 persone in guerra senza motivo. Hanno bombardato la loro casa sopra le loro teste – non è la prima volta che soffriamo di questa brutalità, ma il mondo sta diventando cieco, il mondo vede con un occhio solo e non con entrambi. Quello che sta accadendo sul campo è che la resistenza palestinese ha reagito all’ingiustizia che subiamo, all’umiliazione dei prigionieri palestinesi, ai palestinesi uccisi in Cisgiordania ai posti di blocco israeliani a sangue freddo, il campo di Jenin è stato distrutto da loro. […] Stanno distruggendo questo Paese e il mondo vuole che restiamo in silenzio e che non rispondiamo a queste violazioni – è tutta questa pressione che ha generato l’esplosione. Gaza era una pentola a pressione che nessuno ha tenuto d’occhio ed è esplosa».

I civili palestinesi sono un popolo con ambizioni, sogni, passioni e paure. «Non abbiamo mai potuto esercitare la libertà: certo che siamo arrabbiati. Sono arrabbiato perché io e la mia gente veniamo etichettati come terroristi, senza nemmeno essere guardati in faccia», dice Muhannad Qafesha, un attivista palestinese di Hebron che lavora da oltre 10 anni con l’associazione “Youth Against Settlements”. La Yas nasce dal rifiuto della violenza come mezzo per la resistenza. Gli attivisti dell’associazione organizzano visite guidate per israeliani e turisti da tutto il mondo che vogliono capire l’apartheid in Cisgiordania, e per questo sono esposti costantemente agli attacchi dei coloni. Sabato 7 ottobre, il fondatore dell’associazione, Issa Amro, esperto di diritti umani che ha tenuto discorsi all’Onu e all’Ue, è stato detenuto e torturato per 10 ore da soldati e coloni in divisa militare, senza che nessuno sapesse dove si trovasse. «È dal 1948 e soprattutto da Oslo che chiediamo una soluzione, una via per la pace, ma il governo di estrema destra di Netanyahu ha eliminato ogni possibilità di dialogo. A loro non interessa la pace, ma una vittoria definitiva sui corpi dei bambini di Gaza», dice Muhannad. «Non sono assolutamente d’accordo nel prendere di mira i civili, ma la colpa di tutto questo scempio è dell’attuale governo israeliano con Ben Gvir e Smotrich che non ha mai smesso di provocare i palestinesi e di violare i loro diritti».

Traumatizzati
«Per Israele questa non è una guerra contro Hamas: è una guerra per eliminare la striscia di Gaza», commenta Khawla al-Azraq, fondatrice del Psycho-Social Community Center for Women di Betlemme. Khawla è una psicoterapeuta esperta di trauma, e ha studiato a fondo ciò che lei chiama le “catene della violenza”: il circolo vizioso nel ricorrere alla violenza causato dalla relazione di oppressione tra colonizzatore e colonizzato. È cresciuta nel campo rifugiati di Aida, in Cisgiordania, e ha tirato su i suoi figli tra le bombe e i proiettili lanciati dall’esercito israeliano. Sua figlia ha una disabilità perché all’età di 7 anni fu colpita da alcuni proiettili alle gambe mentre camminava vicino al muro di separazione tra Palestina e Israele (che delimita Aida). Khawla è stata nelle prigioni israeliane per tanti anni solamente perché si occupava di sensibilizzazione prima e durante la Seconda Intifada. «Perché adesso ci chiedono cosa pensiamo di Hamas, invece di come ci siamo sentiti per anni?». Khawla denuncia i mezzi e le azioni di Hamas; lei in primis, che si occupa di curare donne e bambini che hanno sofferto per la violenza. Ma sottolinea che «purtroppo, gli attacchi di sabato 7 ottobre, sono stati una reazione prevedibile a una situazione di anormale disumanizzazione. Tutti i palestinesi hanno diritto a resistere contro la colonizzazione per continuare ad esistere».

Queste storie legate al trauma non sono casi estremi e isolati per il popolo palestinese: tutti hanno una storia da raccontare che ruota intorno alle violenze e umiliazioni subite. Ma questo non rende i palestinesi un popolo senza forza: la loro voglia di vivere sembra non morire mai. Forse, gli eventi di questi giorni stanno cancellando questa vitalità.

Concludo con un messaggio inviatomi da un attivista sindacale palestinese, che ha preferito restare anonimo. Alla domanda «Come ti senti?», ha risposto: «Quando il tuo popolo viene ucciso è difficile chiedersi quali sensazioni si provino. Quando il mondo rimane in silenzio per 75 anni di occupazione, crimini, omicidi, torture, arresti e demolizioni di case, i sentimenti si mescolano a tutto. Uno stato di oppressione… I cuori piangono e gli occhi piangono sangue ogni volta che sentiamo le urla dei bambini di Gaza. Sentiamo questo urlo ogni giorno… Il mondo non può sentire questo grido, ma noi si, perché i palestinesi sono di un solo sangue e di un solo popolo. Il mondo ha scelto di essere ipocrita e ingiusto».

Nelle parole di un attivista israeliano dell’associazione “If not now”, Dean (nome occultato): «Non c’è campagna militare che possa sottrarci alle conseguenze che derivano dall’oppressione di un intero popolo».

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