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Salari da fame: una truffa lunga trent’anni

Un’ondata di scioperi ha investito l’Europa a sostegno di una richiesta semplice: aumentare i salari! L’inflazione galoppante, i ritardi dei rinnovi contrattuali, le politiche pubbliche di bilancio hanno pesato su una situazione sociale già difficile, dopo il biennio della pandemia.

Le proteste sono state giustificate persino dalla Banca centrale europea, che continua ad aumentare i tassi di interesse, perché riconosce che l’inflazione è salita troppo e ha eroso il potere di acquisto dei salari. Di più: la Bce si attende per il 2023 una crescita sostenuta delle retribuzioni nella zona euro come risultato delle forti rivendicazioni sindacali e delle diffuse lotte sociali.

In realtà tutte queste tensioni le abbiamo viste in Germania, in Francia, nell’Inghilterra post-Brexit, mentre in casa nostra alla gravità della situazione salariale non corrisponde finora una decisa risposta sindacale o politica, come se chi avesse la responsabilità di reagire fosse colpito da un’afasia paralizzante.

Sindacati e Pd sono timidi, troppo educati, egemonizzati dal bon ton, ma uno sciopero, una stagione di proteste sul territorio, superando pure il simulacro dell’unità sindacale a tutti i costi, sarebbero la risposta obbligata.

In Germania lo sciopero coordinato dei dipendenti pubblici e dei ferrovieri ha bloccato il Paese e scosso anche le retribuzioni. Seguendo le piattaforme dei colleghi chimici e metalmeccanici, i lavoratori del settore pubblico hanno ottenuto un “premio inflazione” di 3.000 euro e un aumento salariale minimo di 340 euro. I ferrovieri sono ancora in lotta e non recedono dalla loro rivendicazione di un aumento del 12%, circa 650 euro di base.

Questa proliferazione di vertenze va valutata non solo come reazione al balzo del costo della vita, ma anche con la progressiva carenza di manodopera in settori industriali e nei servizi.

In Germania la protesta è stata interpretata dal quotidiano Handelsblatt come una svolta: «I lavoratori hanno capito che la forza-lavoro è diventata un bene raro». E dunque vogliono essere pagati di più e vivere meglio. Per questo IgMetall, il sindacato dei metallurgici, propone la riduzione d’orario a 32 ore settimanali su quattro giorni.

Le proteste in Francia contro l’innalzamento dell’età pensionabile si legano alle questioni del reddito e alle pressioni per la mancanza di manodopera. In Inghilterra la Sanità è in profonda crisi per la carenza di medici e infermieri, con tagli terribili di bilancio.

Poi ci siamo noi. In Italia da circa trent’anni domina la truffa salariale ai danni dei lavoratori. Come premessa bisogna ricordare che tra il 1990 e il 2020 le retribuzioni dei lavoratori italiani sono calate del 2,9%, mentre in Francia e Germania sono cresciute di oltre il 30%.

La politica dei redditi del 1993, un mito per le confederazioni che qualcuno vorrebbe riproporre, si è risolta nel tempo con una compressione degli stipendi e un’esplosione dei profitti delle imprese, che hanno potuto ristrutturare a piacimento e sfruttare i bassi salari come fattore competitivo. Con tanti saluti all’innovazione e al modello “alto” di sviluppo.

Il decennale distacco tra le nostre buste paga e quelle dei Paesi europei si aggrava non solo con la fiammata dell’inflazione ma anche con il mancato rinnovo dei contratti collettivi. Quasi 7 milioni su 12,8 milioni di lavoratori del settore privato attendono il contratto e fanno i conti con retribuzioni inadeguate.

Nel 2022 i salari sono saliti dell’1%, i prezzi otto volte tanto. Di cosa vogliamo parlare?

I bassi salari sono un’emergenza riconosciuta da tutti, ma quando si tratta di agire non si trova mai il bandolo per cambiare. Il Governo Meloni, sulla scia di altri, ha deciso il taglio a tempo del cuneo fiscale per i dipendenti fino a 25.000 euro e 35.000 euro. Un segnale. Ma si tratta di una mancia, non di una svolta salariale e sociale per milioni di lavoratori ai quali Governo e imprese non regaleranno nulla.

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