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Noi, donne israeliane, chiediamo la pace nonostante Hamas

Nel pieno di una spirale di violenza in Medio Oriente, innescata dall’orrore commesso da Hamas e alimentata dalla risposta brutale e in violazione del diritto internazionale da parte di Israele, nella società ebraica c’è ancora spazio per una voce che chiede la pace. 

Israele dichiara lo stato di guerra e bombarda indiscriminatamente i civili palestinesi intrappolati nella Striscia di Gaza, uccidendone oltre 1.200 nei primi cinque giorni. Nel mentre, blocca completamente le forniture di cibo, elettricità e carburante, nonostante l’avvertimento da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sul fatto che ciò provocherà una catastrofe umanitaria.

Tutto ciò avviene in reazione all’attacco a sorpresa compiuto da Hamas a partire dal 7 ottobre in territorio israeliano, che ha sconvolto Israele uccidendo brutalmente oltre un migliaio di abitanti, tra soldati e civili, e catturando circa 130 ostaggi residenti nei territori limitrofi alla Striscia. Esiste ancora, però, un appello alla pace nella società israeliana, e proviene dalle donne di Women Wage Peace

Con i suoi 45mila membri, Women Wage Peace è il più partecipato movimento pacifista israeliano. Dal 2014, dopo l’operazione Piombo Fuso contro la Striscia di Gaza, chiede sforzi per una soluzione diplomatica della questione israelo-palestinese. 

Abbiamo parlato con Avital Brown, membro del movimento sin dalla sua fondazione e già membro del Comitato di Strategia: «Siamo devastate, ma non vogliamo un’ulteriore escalation della violenza. In quanto attiviste pacifiste, noi continuiamo a credere che la guerra non sia la soluzione: non è la soluzione per loro, Hamas, perché non otterranno ciò che vogliono ma solo ulteriore distruzione e morte tra la loro gente, e non è nemmeno una soluzione per noi israeliani. Non ci sono vincitori in guerra, quindi portate a casa gli israeliani rapiti e poi fermatela». 

Tra gli ostaggi attualmente detenuti nella Striscia, secondo Brown, potrebbe esserci anche Vivian Silver, 74enne membro di Women Wage Peace e residente in uno dei kibbutz che affiancano i confini di Gaza.

Silver è un’attivista pacifista da oltre cinquant’anni, negli ultimi tempi si dedicava a portare i malati della Striscia che ottenevano i rari permessi d’uscita in ospedali israeliani o della West Bank. «Ero in contatto con lei sabato mattina, alle 7 mi ha detto che si stava nascondendo dietro un armadio e che sentiva i combattenti di Hamas fuori da casa. Le 11.07 è l’orario in cui l’ultima di noi ha avuto sue notizie», racconta Brown. 

Nel mezzo di questa tragedia, le voci di queste attiviste pacifiste suonano in netto contrasto con la linea adottata dal governo del premier Benjamin Netanyahu. “Bibi” è determinato a usare ogni mezzo possibile per distruggere il nemico, senza curarsi degli oltre due milioni di civili estranei all’operazione Alluvione al-Aqsa che vivono nella Striscia.

Le dinamiche della politica interna israeliana si concentrano in questa fase sulla composizione di un governo di unità nazionale attraverso un’alleanza con le opposizioni. Il leader del Partito di Unità Nazionale, forza centrista precedentemente all’opposizione, Benny Gantz si è detto da subito disponibile e un accordo per l’entrata nella coalizione è stato trovato mercoledì 11 ottobre. 

Yair Lapid, alla guida di Yesh Atid e tra i principali critici della riforma della giustizia portata avanti da Likud e partiti religiosi, per ora è fuori. Aveva chiesto tra le righe l’estromissione dal gabinetto di guerra di estremisti come il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir e quello delle Finanze Bezalel Smotrich, ma non è stata concessa.

Questa è la leadership politica israeliana che ora si unisce per condurre quella che, ci tiene a specificare Netanyahu, non è un’operazione militare ma una vera e propria guerra. Una guerra scatenata dai crimini feroci dei combattenti della Striscia e in cui sin dal primo giorno, da entrambe le parti in conflitto, sono state poste le premesse per disseminare morte e distruzione, che nessuno al Knesset pare voler arginare. 

È proprio a Netanyahu, figura determinante nella vita politica israeliana da oltre vent’anni, che media israeliani autorevoli come Haaretz attribuiscono parte della responsabilità dello scoppio di questo conflitto. Con una politica di violazione dei diritti palestinesi e di espansione degli insediamenti, oltre che attraverso un’attitudine bellicosa verso la Striscia, l’attuale primo ministro avrebbe esasperato la popolazione palestinese e contribuito ad innescare questa tragedia. 

Pacifiste come Avital Brown, però, ritengono queste analisi di secondaria importanza: «Oltre alle singole responsabilità politiche, la causa generale di queste stragi è che siamo in conflitto e quando c’è conflitto le persone usano la violenza. Quello che vogliamo noi è fermare la violenza. Quando abbiamo iniziato a entrare in contatto con le associazioni di donne palestinesi la premessa che abbiamo posto è stata “senza vergogna e senza colpa”. Vergogna e colpa: cioè, il fatto di continuare a guardare al passato incriminando qualcuno non ci porterà da nessuna parte». 

«Non voglio parlare di nulla, se non del fatto che ciò che è accaduto è orribile, la guerra è orribile e Hamas deve pagare un prezzo. Quelli di Hamas non sono i palestinesi con cui noi vogliamo una pace. Ora siamo indignate per i massacri che sono stati commessi il 7 ottobre, ma presto ricominceremo a dire a gran voce che vogliamo guardare al futuro, per far sì che una cosa del genere non accada mai più». 

Le persone con cui Women Wage Peace vuole una pace sono quella parte di società oltre i muri costruiti nei primi anni Duemila per separare i territori palestinesi da Israele che, in West Bank e a Gaza, chiedono di deporre le armi. Tra questi c’è il movimento femminile basato in West Bank Women of the Sun

Solo tre giorni prima dello scoppio di questo conflitto, il 4 ottobre, donne israeliane e palestinesi manifestavano insieme a Gerusalemme e sulla spiaggia di Neve Midbar, in West Bank, racconta Brown: «Loro sono donne palestinesi che vogliono la pace come noi, insieme abbiamo marciato a Gerusalemme e sul Mar Morto, abbiamo presentato la “Petizione delle madri”, in cui sosteniamo che come donne e madri non possiamo appoggiare nessun tipo di violenza».

«Mentre chiedevamo alle nostre leadership di trovare una via di pace, ci abbracciavamo e ci baciavamo. Stiamo parlando di mercoledì, giusto qualche giorno fa – e prosegue – Mantenere questa solidarietà non sarà facile, ma non è stato facile nemmeno in passato. Israeliani e palestinesi muoiono da decenni, abbiamo superato tante sfide in questi anni, come donne israeliane e palestinesi ci siamo chieste molte volte se fosse il caso di continuare a parlare le une con le altre: la risposta è sempre stata “Sì”. Sarà difficile ma non smetteremo, perché molte vite sono state distrutte ma ci sono ancora più vite che, se le cose non cambieranno, saranno in pericolo in futuro. Insomma, non abbiamo scelta».

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