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Se l’Occidente non vuole perdere credibilità, deve trattare Israele come Russia e Hamas

Le parole del presidente degli Stati Uniti Joe Biden immediatamente successive all’attacco del 7 ottobre rivelano la complessità dinnanzi alla quale Israele si trova. L’offensiva di terra a Gaza sottopone gli israeliani al giudizio della Storia. L’azione militare che ne deriverà potrà infatti risultare decisiva per sconfiggere definitivamente Hamas sul campo, ma potrebbe non essere sufficiente a sradicare del tutto il terrorismo e l’ideologia che lo anima.

Ce lo insegna innanzitutto, a proposito di storia, la sfortunata (per usare un eufemismo) campagna militare Usa in Afghanistan cominciata nel 2001, determinatasi in seguito a una rapida e piuttosto impulsiva decisione post-attacco dell’undici settembre.

Intanto Biden – che si è recato in visita in Israele nel giorno successivo l’attacco all’ospedale di Gaza costato la vita a 500 persone (la cui responsabilità e portata effettiva delle vittime sono ancora da verificare) – ha garantito il sostegno di Washington a Netanyahu, ma ha anche invitato quest’ultimo ad analizzare a fondo tutte le possibilità e a ponderare le conseguenze di una eventuale, simile risposta letale contro Gaza. A non ripetere, insomma, gli stessi errori compiuti dagli Usa dopo l’attentato alle Torri Gemelle.

In realtà la risposta di Netanyahu, appellandosi al diritto internazionale, è iniziata da un pezzo: a fronte delle 1.400 vittime israeliane accertate, in poco più di due settimane la campagna a “bassa tensione” di Israele (in attesa dell’invasione) ha causato la morte di 4.651 palestinesi, tra cui quasi 2.000 bambini.

Se il tema, dunque, è il diritto di Israele a difendersi, quest’ultimo parrebbe ampiamente essere già stato colmato.

A meno che non si parli di ottenere una vendetta fine a se stessa, più che una vera giustizia, e in quel caso ciò preluderebbe a una tragedia di lungo termine, dalle dimensioni devastanti, tali per cui a Gaza rischia di avvenire una pulizia etnica.

Del resto il diritto di Israele a difendersi non può non tenere conto del fatto che le punizioni collettive, come il blocco di carburante, acqua, cibo, elettricità, e il prendere di mira indiscriminatamente i civili costituiscono crimini di guerra contro il diritto internazionale, come emerge da un report di 44 pagine del Centro per i Diritti Costituzionali americano.

Israele è da sempre il maggior beneficiario dell’assistenza finanziaria e militare Usa, per un importo pari a 158 miliardi di dollari sin dalla fondazione dello Stato ebraico nel 1948. La scorsa settimana un alto funzionario del Dipartimento di Stato americano si è dimesso dal suo incarico, citando la continua fornitura di armi letali da parte del governo Usa a Israele.

Non a caso l’amministrazione degli Stati Uniti ha suggerito a Israele di posticipare quanto più possibile l’invasione di terra, nella speranza di “comprare” tempo prezioso per la negoziazione degli ostaggi e al fine di permettere che nuovi e più sostanziosi aiuti umanitari possano essere consegnati ai circa due milioni di palestinesi intrappolati e isolati nella Striscia.

Mentre Usa e Qatar mediano, tanto sugli ostaggi quanto su una possibile risoluzione, l’Europa sta a guardare (tanto per non sbagliare) senza riuscire a elaborare una propria politica, strategia, mediazione. Ma il coinvolgimento di Hezbollah in Libano, e quindi dell’Iran, insieme alle immagini che giungono dalle piazze musulmane in diversi Paesi arabi a favore della causa palestinese, riaccendono il dibattito sulla necessità di indagare ulteriormente la soluzione dei due popoli – due Stati.

Le due parti moderate – la democrazia sana di Israele da un lato e l’ala progressista dei palestinesi dall’altro – potranno tornare a dialogare nella speranza di emarginare le due correnti più estreme e radicali di ambo le parti, entrambe tra l’altro rispettivamente detestate dagli israeliani e dai palestinesi illuminati?

Vale infatti la pena di ricordare che in Terra santa, sullo sfondo di un odio tra due fazioni estreme e radicali che vogliono solamente distruggersi a vicenda, non c’è un buono e un cattivo. Non c’è giusto ma solo sbagliato tra chi ha costantemente gettato benzina sul fuoco, e mai domato le fiamme, di questo conflitto che va avanti da circa ottant’anni.

Un importante diplomatico italiano, sotto richiesta di anonimato, tempo fa paragonò la guerra tra la Russia (una dittatura guidata da un tiranno spietato) e l’Ucraina (uno fra i Paesi con il più alto tasso di corruzione al mondo) a quella fra Camorra e ‘Ndrangheta, non per le loro similitudini ma per evidenziarne le rispettive carenze democratiche nonostante i due Paesi, in modo diverso e distante l’uno dall’altro, si richiamino alle modalità e prassi consoni a una democrazia.

«È difficile oggi per gli Stati Uniti – conclude Marc Lynch, professore di Scienze politiche e Affari internazionali alla George Washington University – conciliare la tutela e la promozione del diritto internazionale a difesa dell’Ucraina aggredita dalla Russia con una noncurante insensibilità degli stessi principi a Gaza». Se gli Usa vogliono essere l’arbitro del mondo, se davvero incarnano la “leadership americana che tiene il mondo insieme”, allora la stessa durezza applicata nei confronti delle atrocità russe in Ucraina e a quelle di Hamas in Israele deve essere applicata a quelle commesse da Israele a Gaza.

Se l’Occidente non vuole perdere la propria credibilità, lo stesso comportamento che ha adottato con l’Ucraina deve adottarlo su Gaza. Altrimenti non risulterà mai più affidabile (e invero già traballa molto la sua percezione, proprio per il suo proverbiale doppio standard). Nessuno, nel sud del mondo, ascolterà più l’Occidente. Nessuno crederà più alla favola dell’“Al-lupo, Al-lupo!”, chiamando in ballo la sicurezza e la stabilità internazionale.

In Terra santa ci sono due popoli le cui legittime cause, israeliana e palestinese, rivendicano il proprio sacrosanto diritto ad esistere. Oggi l’Occidente, e in particolare l’Europa, paga il prezzo della propria incapacità ad aver trovato, o tentato di trovare, una soluzione. Sono oggi sufficientemente maturi i tempi perché questi due popoli possano convivere fra loro?

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