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Egitto, 10 anni di repressione: ora non dimentichiamo gli altri 60mila Zaki ancora in carcere

La notizia della grazia concessa dal presidente Al-Sisi a Patrick Zaki ha riempito di gioia attivisti e cittadini italiani che da anni seguono il giovane egiziano accusato di aver diffuso false notizie. Il giovane Patrick è finalmente libero e può sperare di costruire il suo futuro, anche se forse non sarà in Egitto. Per molti altri giovani attivisti, politici, dissidenti o semplici cittadini egiziani non è così. In Egitto decine di migliaia di persone sono detenute con motivazioni pretestuose, a fini politici, ne è un esempio la prigionia di Alaa Abdel-Fattah, famoso attivista egiziano, diventato uno dei simboli della repressione autocratica di Al-Sisi.

Si chiamano prigionieri di coscienza, e per loro non c’è mai sufficiente visibilità o pressione politica internazionale in grado di generare un cambiamento in un sistema che il presidente Al-Sisi, nei suoi 10 anni di governo – così come i suoi predecessori – è riuscito a normalizzare soprattutto agli occhi dell’opinione pubblica internazionale. 

Cultura del sospetto
«Nessuna voce è più forte del suono delle sue armi, dell’oppressione, della tortura e dell’intimidazione, tanto che i servizi di sicurezza non si limitano ad arrestare noti oppositori e membri del partito, ma prendono di mira e arrestano chiunque esprima la propria opinione, anche solo attraverso un post su Facebook», ci spiega Nour Khalil, ricercatore egiziano e attivista per i diritti umani, fondatore della Refugees Platform che si occupa dei diritti dei rifugiati e migranti in Egitto. Dal 2014 è stato arrestato e portato in carcere più volte per aver preso parte a proteste antigovernative e per il suo lavoro in favore dei diritti umani. Oggi vive in Italia dove è fuggito nel 2022.

«Post su Facebook o tweet, o anche video o canzoni satiriche, tutti sono sospettati dalle autorità di sicurezza. Il poeta Jalal Al-Buhairi è ancora in carcere solo per aver scritto una canzone satirica, e l’altra persona coinvolta, Shadi Habash, è morta in prigione per fatto un montaggio del video della canzone. Questo livello di repressione, che ha lo scopo di annientare qualsiasi tipo di alternativa politica o di opposizione, si è trasformato in dieci anni in una dittatura militare totale che controlla le persone ovunque e le punisce per le loro opinioni anche negli spazi digitali, per non parlare delle leggi restrittive e persino mortali sulla libertà di opinione, di organizzazione e di azione politica. Il regime ha anche usato il suo potere assoluto per accusare gli oppositori di far parte di gruppi terroristici, usando leggi progettate specificamente per questo scopo, e usando anche i media governativi per distorcere la realtà», prosegue Nour.

Tra luglio e settembre del 2020, il Comitato per la giustizia (Cfj), un’associazione indipendente per i diritti umani, ha documentato 1.453 violazioni dei diritti umani in Egitto, 1.351 delle quali legate alla privazione arbitraria della libertà. Nel suo rapporto trimestrale sui diritti umani e le libertà in Egitto, ha monitorato 48 sparizioni forzate, 26 casi di cattive condizioni di detenzione, 19 casi di morte nelle strutture di detenzione e nove casi di tortura. La percentuale maggiore di violazioni si è verificata nel mese di agosto, con 516, pari al 35 per cento del totale.

Il rapporto ha riguardato 10 governatorati egiziani, documentando il maggior numero di queste violazioni nella capitale, il Cairo, dove si sono verificate 939 violazioni (il 64 per cento). Le stazioni e i centri di polizia sono in cima alla lista delle strutture di detenzione in cui sono state documentate le violazioni, ossia 306. Per quanto riguarda le vittime, gli attivisti politici sono stati l’obiettivo di 11 violazioni documentate, così come le persone che lavorano nell’industria dei media e nelle professioni ingegneristiche, rileva il rapporto. Sono stati seguiti da difensori dei diritti umani con sette violazioni.

Una goccia del mare
Come racconta Nour Khalil, che ha vissuto sulla propria pelle tutto questo, «i servizi di sicurezza hanno preso di mira soprattutto individui e gruppi che lavoravano in ambito politico. Così si è arrivati all’arresto, tortura e talvolta all’uccisione extragiudiziale di migliaia di persone, “colpevoli” di aver partecipato a un partito o gruppo politico o di aver espresso la propria opinione politica su alcune questioni, anche se non erano coinvolte. Nel campo dell’attività politica, ricordiamo ex membri del Parlamento come il rappresentante Mustafa Al-Najjar, vittima di sparizione forzata dal 2018, e Abdel Moneim Aboul Fotouh, l’ex candidato alle presidenziali e capo del partito (Egitto Forte), che è ancora detenuto dalle autorità in pessime condizioni di salute, Alaa Abdel Fattah, Ahmed Doma e Mohamed Adel…. Ma ci sono moltissimi altri nomi».

La storia di Patrick Zaki, dunque, che ha ottenuto la grazia e non un’assoluzione in merito ai reati per cui è stato condannato, è solo un goccia nel mare. Per molti altri “Patrick” rinchiusi nelle terribili carceri egiziane non vi sarà lo stesso epilogo.

«Patrick Zaki non avrebbe dovuto trascorrere neanche un giorno in carcere, nessuno dei 22 mesi di detenzione preventiva. Nessuno!», ci dice Tina Marinari, coordinatrice campagne Amnesty International Italia. «Perché non si può essere arrestati per aver espresso un’opinione, per aver denunciato una discriminazione. Patrick non avrebbe dovuto ricevere la grazia perché non avrebbe dovuto mai essere arrestato né processato: tre anni di carcere per aver scritto un articolo sulla discriminazione della minoranza copta o, per essere più precisi, per “diffusione di notizie false”. Mentre oggi siamo qui a gioire per la grazia a Patrick Zaki e a Mohamed al-Baqer, avvocato del famoso attivista Alaa Abd El Fattah, decine di migliaia di persone rimangono in detenzione solo per aver criticato il presidente al-Sisi: #FreeThemAll è l’hashtag che continua a circolare su Internet, rilanciato dagli attivisti egiziani».

«Abbiamo trascorso gli ultimi tre anni a tenere alta l’attenzione su Patrick Zaki. Abbiamo portato la sua storia ovunque in Italia, nei luoghi pubblici come nei salotti istituzionali. Abbiamo chiesto a tutti i governi italiani che si sono susseguiti in questi anni di incalzare il presidente Al-Sisi. Ma cosa possiamo aspettarci da un Paese, l’Egitto, che tiene rinchiusi in carcere 60mila prigionieri politici, persone detenute per aver espresso un’opinione, per aver pubblicato un video, per aver osato criticare il presidente Al-Sisi o aver partecipato ad una manifestazione? L’Egitto è un Paese in cui i giornalisti e le giornaliste vengono arrestati arbitrariamente a causa del loro lavoro o delle loro opinioni critiche. A fine 2022 abbiamo contato in carcere almeno 25 giornalisti, in seguito a un verdetto di colpevolezza o in attesa d’indagini per accuse come “uso improprio dei social network”, “diffusione di notizie false” e “terrorismo”», prosegue Marinari.

Attenzione internazionale
Amnesty International denuncia da anni sparizioni forzate, arresti e detenzioni arbitrarie di attivisti, avvocati, difensori dei diritti umani. Più volte, negli anni, l’organizzazione internazionale ha diffuso rapporti in cui sono stati raccontati dettagliatamente i metodi brutali utilizzati dalle forze di sicurezza egiziane per estorcere confessioni. Torture e maltrattamenti di ogni genere sono stati usati indistintamente su donne e uomini, adulti e minori. Amnesty ha reso noto inoltre uno studio sulla nuova prigione Badr  3, inaugurata con grande enfasi dalle autorità egiziane ma nella quale oppositori politici e persone finite in carcere per aver criticato il governo si trovano in condizioni crudeli e inumane. «La prigione Badr 3 si trova 70 chilometri a nordest della capitale Cairo. Le condizioni sono uguali se non peggiori rispetto a quelle del famigerato complesso penitenziario di Tora, dal quale molti detenuti sono stati trasferiti nella nuova prigione intorno alla metà del 2022. Le condizioni di detenzione sono insostenibili ovunque: celle gelide d’inverno e infuocate d’estate, luci al neon costantemente accese, videocamere di sorveglianza puntate contro i detenuti, scarsità di cibo, di vestiti e di prodotti igienici con il divieto di riceverli dall’esterno. Non è consentito leggere libri. È vietata anche la corrispondenza in entrata e in uscita», conclude Marinari.

«Dal 2013, all’alba di ogni nuovo giorno, il regime dittatoriale del presidente Abdel Fattah Al-Sisi commette un nuovo crimine contro l’umanità», ci ricorda Safwan Mohamed, egiziano, giornalista e difensore dei diritti umani che nel 2017 è stato costretto a lasciare Alessandria, la sua città, per fuggire in Europa. La sua colpa? Essere un dissidente politico. Da quasi sette anni Safwan non può tornare nel suo Paese, i suoi cari, la sua famiglia, sono morti e non ha potuto nemmeno partecipare ai funerali per paura di ritorsioni o peggio, di essere trattenuto in Egitto e fatto sparire in qualche prigione. Da anni Safwan denuncia la situazione dei diritti umani nel Paese. Il suo sguardo sui dieci anni di governo del “faraone” Al-Sisi è duro e privo di mezzi termini: «Il regime egiziano non vuole alcuna voce di opposizione e invia un chiaro messaggio a tutti gli oppositori e a chiunque pensi di criticare il regime: faccio quello che ha fatto il nazista Hitler prima di me, imprigiono tutti coloro che si oppongono a me, nazionalizzo i media e ne faccio la mia unica voce, faccio della polizia e dell’esercito uno strumento di oppressione e di morte». 

Sono le persone come Safwan a ricordarci quanto sia importante non spegnere l’attenzione sulle violazioni dei diritti umani in Egitto e su tutte quelle persone che hanno pagato con la libertà o con la vita il proprio diritto di pensiero. Safwan si è in qualche modo salvato, scappando in Europa. Ma la sua salvezza non è libertà. Chissà quando potrà tornare in patria, piangere i propri cari, vivere e respirare le strade della sua amata Alessandria. Per lui e per i tanti giovani egiziani quel giorno sembra ancora molto lontano.

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