Per Giorgia Meloni e il suo governo del Merito e della Sovranità alimentare l’autunno è già arrivato. La presidente del Consiglio ha in mente per il 25 settembre una grande celebrazione del primo anniversario della vittoria elettorale della destra, una manifestazione di orgoglio patriottico e di risultati brillanti, in un’Italia che rinasce e conquista la posizione che gli compete nel mondo, accompagnato dai nouveaux philosophes, il parà Vannacci e l’anchorman Andrea Giambruno.
Se questo era il programma, meglio rettificarlo. Non c’è aria di festa nel Paese. Per Meloni l’effetto vacanze è finito subito. Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, il leghista che riusciva parlare con Mario Draghi, avverte che «non si può fare tutto» per la prossima manovra finanziaria.
Anche il collega Raffaele Fitto, già nei guai per il Pnrr che proprio non riesce a realizzare, ricorda che «ci siamo dimenticati del convitato di pietra: il Patto di Stabilità». Ma chi sono questi disfattisti? Ci manca solo che l’Italia sia richiamata dall’Unione europea a rispettare il rapporto del 3% tra deficit e Pil, come prima della pandemia, e sarebbe un massacro sociale.
La manovra per il 2024 deve (dovrebbe) essere la prima prova della concreta realizzazione del programma nazional-sovranista: cuneo fiscale esteso per l’intero anno per i redditi fino a 35mila euro, riforma del fisco, pensioni con Quota 41, Ponte sullo Stretto, assegno di inclusione, il ritorno della rete Tim in mano allo Stato (anche se con il sostegno vorace del fondo yankee) e poi ci sarebbe da finanziare il varo dell’autonomia regionale differenziata.
Non ci siamo, bisogna sfrondare le promesse elettorali. Non c’è un euro da buttare. Settembre, infatti, porta notizie inquietanti per la ciurma di governo.
L’economia rallenta, perde vigore. Quindi lo slogan dell’«Italia che cresce più degli altri in Europa» non è più credibile e la presidente del Consiglio non può più usarlo per galvanizzare le truppe. La flessione del secondo trimestre è stata rettificata al ribasso: il Pil è sceso dello 0,4%. Potrebbe essere un problema raggiungere a fine anno la crescita dell’1%, obiettivo scritto da Meloni nel Documento di Economia e Finanza.
La minaccia per i prossimi mesi ha un aspetto poco piacevole: i consumi interni non vanno, è la rivolta delle famiglie che non comprano più, non spendono perché redditi e salari non sono stati salvaguardati in un periodo troppo lungo di alta inflazione.
Prima il gas, l’energia, le bollette e tutti gli effetti della guerra in Ucraina. Poi accanto ai rincari delle materie prime si è innestata una spirale speculativa che ha colpito la fiducia e i bilanci delle famiglie. Chi ha potuto andare in vacanza è stato maltrattato da prezzi insostenibili, a partire dalla benzina. E le statistiche iniziano a rilevare una chiara contrazione della domanda di generi alimentari perché nell’ultimo anno i prezzi dei beni di consumo acquistati dalle fasce più deboli sono aumentati in misura maggiore rispetto alle merci acquistate dai ceti benestanti.
Questa debole tendenza economica, per la verità, non è solo italiana, riguarda larga parte dell’Europa, comprese la Germania e la Francia.
In questo contesto forse ci vorrebbe maggiore cautela, evitando eccessi non sopportabili dalle finanze pubbliche. La destra di governo, in difficoltà, ha già adottato uno schema classico della politica italiana: se Meloni non riesce a realizzare il suo piano, la colpa è di quelli che c’erano prima che hanno buttato i soldi e hanno sbagliato le scelte.
Quindi è colpa del Superbonus e del Reddito di cittadinanza voluti dai grillini di Conte, dell’Europa che non vuole estendere la sospensione del Patto di stabilità, della Bce che tiene i tassi di interesse troppo alti, e pure di Elly Schlein che si ostina a chiedere il salario minimo legale. La realtà, per ora, è che a un anno dal trionfo elettorale, la destra ha già portato il Paese in mezzo al guado. E miracoli all’orizzonte non se ne vedono.