La prima volta è stata in Portogallo. All’inizio di novembre, il governo del premier Antonio Costa è stato travolto dall’accusa di corruzione e traffico di influenze per un motivo inedito: un giacimento di litio. Lo scandalo ha riguardato due progetti legati alla transizione ecologica e digitale, quello per un impianto di produzione dell’idrogeno verde a Sines, ma soprattutto il progetto di esplorazione di un giacimento di litio in un’area nel nord del Paese. Entrambi hanno una caratteristica comune: servono alla transizione ecologica e digitale di cui l’Ue ha bisogno. Il nuovo oro, insomma, quello verde.
Perché il litio, componente essenziale per le batterie delle automobili e degli smartphone, insieme ad altri minerali tra cui cobalto, manganese, o silicio, boro e fosforo con cui si producono i pannelli fotovoltaici, fino alle preziose e versatili terre rare saranno sempre di più al centro di una contesa mondiale per la fornitura di energia pulita e componenti digitali. Una contesa nella quale l’Ue è in affanno rispetto agli altri attori principali della rivoluzione green, Usa e Cina tra tutti. E ora cerca, per quanto a fatica, di recuperare.
Corsa all’oro verde
Pochi mesi fa, i geologi hanno individuato un giacimento del prezioso materiale a diverse centinaia di metri di profondità nel sottosuolo di Campagnano Romano, non a caso nei pressi di un’area vulcanica come quella del lago di Bracciano. L’Ispra ha censito la presenza di circa tremila siti in Italia da cui estrarre diverse materie prime critiche. La differenza è che, a Campagnano come altrove nella penisola, non c’è ancora un piano concreto per lo sfruttamento dei giacimenti.
Solo tornando al caso portoghese possiamo aprire uno spiraglio su quello che in futuro potrebbe succedere anche a casa nostra. Lì è esplosa l’opposizione delle comunità locali in nome della tutela ambientale contro i piani di sfruttamento dei giacimenti. Parliamo di 65 milioni di euro da parte della britannica Savannah Resources per l’estrazione di 60 mila tonnellate di litio. Una quantità che permetterà di produrre circa mezzo milione di batterie elettriche ogni anno. Ma che non ha convinto gli abitanti di Covas do Barroso, il paese nelle cui immediate vicinanze dovrebbero sorgere pozzi a cielo aperto che, secondo le comunità locali, danneggerebbero l’attività agricola e contaminerebbero l’ambiente.
Così la protesta di un’area rurale ha sollevato un caso che ha portato all’inchiesta giudiziaria e, a cascata, fino a investire i palazzi del potere a Lisbona.
Bruxelles, fa’ qualcosa!
La transizione green mette a rischio la tenuta ambientale del territorio? In attesa di sciogliere la contraddizione, l’Ue non può aspettare. Al contrario, è costretta a correre.
Lo scorso 13 novembre a Bruxelles, la presidenza di turno spagnola del Consiglio ha raggiunto un accordo con Parlamento e Commissione Ue – da cui è arrivata la prima proposta legislativa nel marzo di quest’anno. L’obiettivo, quello di avviare l’iter del Regolamento sulle materie prime critiche (Critical Raw Material Act), con la speranza di vederlo approvato già all’inizio del 2024, possibilmente prima dell’appuntamento elettorale del prossimo giugno. Una volta individuate 34 materie prime critiche, di cui 17 definite “strategiche”, l’Ue si propone di ridurre la sua dipendenza sul versante delle importazioni. Lo fa guardando sia all’interno che all’esterno dei confini dei 27.
A livello interno, l’obiettivo è arrivare a estrarre almeno il 10%, lavorare il 40%, puntando anche a riciclare il 15% (ma nel compromesso raggiunto a novembre l’asticella del riciclo viene alzata fino al 25%) del fabbisogno annuale. Sullo scenario globale, si punta alla diversificazione dei Paesi fornitori, assicurando che non più del 65% di un singolo metallo venga importato da un solo Paese non Ue.
Tallone cinese
«È la svolta per l’accesso sicuro e sostenibile a input vitali per la transizione verde e digitale e per le nostre industrie strategiche», ha commentato una volta raggiunto l’accordo la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen. «Siamo alla fondazione dell’autonomia strategica europea», le ha fatto eco Teresa Ribera Rodriguez, ministra spagnola della Transizione Ecologica a nome della presidenza di turno del Consiglio. «La dipendenza dalle materie prime è il tallone d’Achille della competitività europea, ma con questo provvedimento possiamo volgere in forza la nostra debolezza».
A chi pensa la ministra? Come provvedimento legislativo, il nuovo regolamento rappresenta la risposta a dodici stelle all’Inflation Reduction Act con cui il presidente Usa Joe Biden ha riversato 370 miliardi di dollari nel mercato interno per sostenere la sostenibilità ambientale dell’industria americana. Ma soprattutto, perseguendo la propria “autonomia strategica” l’Ue punta a contrastare il ruolo chiave della Cina nell’estrazione e trasformazione dei metalli essenziali per la transizione energetica.
È vero che gran parte del litio si trova in Cile e del cobalto in Congo, il che rende già evidente la dipendenza europea. Eppure è il territorio cinese ad essere il vero forziere per l’estrazione di una lunga serie di materie prime: da magnesio e tungsteno a titanio e grafite. Ed è ancora la Cina il luogo d’origine da cui molte di esse, estratte altrove, convergono per trasformarsi nel prodotto finale. La dipendenza europea risulta evidente, se si stima che le sole terre rare arrivano già al 98% dalla Cina. I dati Eurostat relativi al 2022 certificano come l’Ue ne ha importati 18 milioni di tonnellate da Pechino: un trend in crescita, che segna quasi il 10% in più rispetto all’anno precedente.
Autonomia strategica
Complessivamente, la domanda globale di materie prime critiche è in aumento e l’Europa non fa eccezione. Secondo le previsioni della Commissione Ue, la domanda delle sole terre rare e del litio è stimata in aumento, rispettivamente di 10 e di 60 volte entro il 2050. Giusto agire, quindi, ma la modalità è quella giusta?
Il problema sul versante extra-Ue deriva dalla dimensione sovranazionale della catena di approvvigionamento dell’industria green. È un aspetto messo in luce nell’analisi di Marie Le Mouel e Nicolas Poitiers, ricercatori del centro studi Bruegel di Bruxelles, che suggeriscono all’Ue una via d’uscita: quella di «promuovere investimenti in infrastrutture e progetti» direttamente nei Paesi fornitori. Non solo per diversificare le fonti dell’attività estrattiva, ma soprattutto per promuovere «il processo di trasformazione delle materie prime fuori dall’Europa». Insomma, investimenti mirati per rendere quei metalli il più possibile “impacchettati” senza passare per Pechino.
La Cop 28 sul clima di Dubai, appena iniziata, sarà l’occasione per lanciare il «club delle materie prime critiche», ha promesso Maros Sefcovic, che dell’esecutivo comunitario è vicepresidente esecutivo per il Green Deal. Un’iniziativa per sviluppare la cooperazione con Paesi come Canada – con cui l’Ue ha già in vigore un accordo commerciale – ma anche Australia e Cile, non a caso ricche di litio. In funzione anti-Cina, rigorosamente.