Se sei una donna, vivi in Italia e hai tra i 25 e i 65 anni, sei condannata a vivere in una condizione di perenne iniquità. E a rincorrere la chimera della parità. Che però ancora oggi è troppo spesso lontana dall’essere raggiunta, ostacolata da un muro incrollabile, da una legge inviolabile imperniata su di una cultura identitaria al cui centro c’è l’essere umano in quanto uomo e non in quanto donna.
Non c’è, ovviamente, un motivo scientifico tale per cui l’uomo oggi prevalga costantemente sulla donna, ma il vizio e l’abitudine legati a questo discrimine impongono una riflessione, giunti, come siamo, all’era dell’intelligenza artificiale.
Tutto evolve, o quasi, in questa società dell’abbondanza iper-connessa, ma non l’equilibrio dei rapporti tra uomo e donna. Eppure, come si è visto, non esiste una valida ragione per cui l’uomo prevarichi la donna a tal punto da ottenere un così ampio margine di vantaggio (materiale) su pressoché ogni aspetto della vita.
In tal senso l’unica possibile spiegazione, che si è andata sempre più affermando, riguarda l’aspetto fisico e l’idea che il più forte tra i due esseri umani, tra uomini e donne cioè, sia il maschio. Da cui, degenerando, si è arrivati alla squallida battuta verso una ragazzina colpevole di aver assunto le sembianze fisiche più mascoline: «Come ti sei conciata? Sembri un uomo». Oppure: «Hai le spalle da uomo, fai nuoto o palestra?».
La discriminazione si riverbera naturalmente anche in molti altri aspetti, più importanti ma non meno gravi, tra cui al primo posto c’è il lavoro. Basti pensare che in Italia le donne occupate sono circa 9,5 milioni, contro i 13 milioni di maschi occupati. Una donna su cinque, poi, è costretta a lasciare il proprio impiego dopo il parto; il tasso di occupazione (55 per cento) è il più basso dell’Unione europea, essendo di circa 14 punti percentuali al di sotto della media (69,3 per cento la media dell’Ue).
Non solo: in questo strano posto che chiamiamo casa, dove la parità è garantita per Costituzione, le donne sono, ça va sans dire, meno pagate rispetto agli uomini. Nel 2022 la retribuzione media annua è risultata di 26.227 euro per gli uomini contro i 18.305 euro per le donne. Una differenza di 7.922 euro. Infine, dal punto di vista delle caratteristiche del lavoro svolto, la bassa partecipazione al lavoro delle donne è determinata da diversi fattori, come l’occupazione ridotta, in larga parte precaria, in settori a bassa remuneratività o poco strategici e una netta prevalenza del part time, che riguarda poco meno del 49% delle donne occupate (contro il 26,2% degli uomini).
L’unico argine a questa deriva discriminatoria sembra essere l’istruzione: la differenza nella condizione occupazionale tra chi è madre e chi non ha figli è ben minore laddove coesista un grado di istruzione maggiore. E forse il problema è duplice, in questo senso: la scuola, unico vero emancipatore sociale, dovrebbe essere un’istituzione da tutelare a prescindere dalla conseguenza che un più alto titolo di studi, per una donna, comporti un’occupazione e un salario più simili a quelli di un uomo di per sé.
In secondo luogo, troppo spesso, ancora oggi si parla di donne con figli piccoli, quasi che questi ultimi appartenessero solo a loro, anziché di uomini e donne con figli. Il pregiudizio, come vedete, è già insito nelle parole e nel modo di ragionare della classe dirigente tutta, a ogni livello. Un preconcetto, in altre parole, radicato dentro le stesse donne.
Per cambiare servirebbe una rivoluzione che parta dal basso, che riguardi tutti, e che cambi il modo di pensare e di parlare, ancor prima che le regole del gioco.