Da oltre settant’anni siamo abituati a pensare al sistema internazionale come a un fragile equilibrio retto dal liberalismo occidentale. Un equilibrio imperfetto basato su alcune regole minime condivise: il rispetto della sovranità, la centralità delle istituzioni multilaterali, la fiducia nel libero commercio come antidoto alla guerra.
Dopo il 1945, sotto il grande ombrello americano, queste regole hanno garantito un ordine almeno parziale, dove conflitti e instabilità erano contenuti entro limiti che non minacciavano mai davvero la tenuta dell’architettura globale. Oggi, invece, quello stesso ordine appare quanto meno sfilacciato.
L’impressione è che il mondo stia scivolando verso un nuovo tipo di anarchia internazionale, dominata non più da regole condivise ma da leadership forti, talvolta autoritarie, e da guerre regionali che finiscono per avere effetti globali. I fatti degli ultimi tre anni lo dimostrano.
Gli Stati Uniti, che avrebbero dovuto essere i garanti dell’ordine liberale, sono oggi ostaggio di un’oscillazione profonda. Da un lato, il loro peso militare ed economico resta determinante; dall’altro, una polarizzazione crescente e il ritorno di pulsioni isolazioniste indeboliscono la loro capacità di guida. Washington continua a proclamarsi custode dei valori democratici, ma le sue azioni disvelano spesso un’altra storia.
Il ritiro dall’Afghanistan, caotico e improvvisato, ha mostrato al mondo la vulnerabilità della superpotenza e ha offerto a regimi rivali la sensazione che lo «sceriffo globale» non sia più disposto a combattere a lungo per difendere un ordine che gli stessi americani sembrano considerare un fardello.
La copertina del nuovo numero della rivista di TPI, dedicata proprio all’Afghanistan prima sfruttato e poi «abbandonato», racconta le fragilità di un modello inefficace. Dopo vent’anni di presenza militare e miliardi di dollari investiti, il Paese è tornato nelle mani dei talebani in poche settimane. La promessa di costruire istituzioni democratiche, di difendere i diritti delle donne, di aprire il Paese al mondo si è rivelata un miraggio. L’Afghanistan di oggi è governato da un regime che ignora le regole internazionali, reprime brutalmente la società civile e si regge sulla paura. Il messaggio lanciato al mondo è chiaro: l’Occidente ha prodotto un vuoto colmato dal ritorno a logiche tribali.
La Russia di Vladimir Putin è l’antitesi stessa del modello liberale. La guerra in Ucraina non è soltanto un conflitto territoriale, ma una sfida frontale all’idea che i confini possano essere considerati inviolabili. Mosca ha riportato in Europa la logica della forza, quella per cui un Paese più grande può schiacciarne uno più piccolo, facendo della guerra uno strumento legittimo di politica estera.
L’invasione russa del 2022 non ha distrutto soltanto città ucraine: ha demolito la convinzione che l’Europa fosse definitivamente al riparo dalle logiche imperiali del Novecento. L’effetto politico è chiaro: la sicurezza europea dipende da un fragile equilibrio tra deterrenza militare e negoziati precari.
Anche la guerra a Gaza rappresenta un ulteriore colpo all’illusione di un ordine internazionale regolato da norme e convenzioni. L’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 e la risposta militare israeliana hanno mostrato quanto rapidamente possa riaccendersi una spirale di violenza capace di travalicare i confini regionali. Favorendo scenari di rivendicazione che promettono di durare a lungo.
Mai come oggi appare lontana, benché fortemente auspicabile, la soluzione dei due Stati in Medio Oriente. Gli appelli delle Nazioni Unite, i tentativi di mediazione e le condanne internazionali sono oggi per lo più ignorati dalle parti in conflitto, riducendo l’Onu a un osservatore impotente. Ancora una volta, la logica della forza ha prevalso sulla logica del diritto. Inutile ribadire che a pagare il prezzo più alto sono i civili: milioni di persone, dall’Ucraina a Gaza, intrappolate in conflitti che sembrano senza una via d’uscita.
La somma di tutte queste crisi e l’ambivalenza americana, per non dire occidentale, ci consegnano un mondo che assomiglia sempre meno a quello immaginato dai teorici del liberalismo internazionale.
Non viviamo più in un sistema ordinato da valori e regole condivise, bensì in un’arena in cui ciascun attore persegue i propri interessi con la forza che riesce a mettere in campo. È un ritorno, in fondo, all’anarchia originaria descritta dai realisti delle relazioni internazionali: non esiste un’autorità sovranazionale in grado di imporre regole, esistono solo Stati che competono in base alla propria potenza.
Dunque le leadership forti e autoritarie prosperano in questo contesto. Putin in Russia, Xi Jinping in Cina, i talebani in Afghanistan, ma anche le tendenze autoritarie che emergono in democrazie fragili o in regimi ibridi: tutti traggono forza dal vuoto lasciato dal declino del liberalismo internazionale.
È più facile imporsi quando l’idea stessa di comunità internazionale si sbriciola in un mosaico di alleanze e coalizioni temporanee. Naturalmente, il quadro non è privo di contraddizioni.
L’Occidente resta pur sempre un polo di attrazione economica, culturale e tecnologica. La Nato, nonostante tutto, ha ritrovato una certa coesione di fronte all’aggressione russa. L’Unione Europea, pur divisa e lenta, ha compiuto passi significativi verso una maggiore autonomia strategica. Eppure, questi segnali non bastano a nascondere il fatto che la fiducia nell’ordine liberale si sta sgretolando.
Il rischio, oggi, è di entrare in una lunga fase di transizione verso un mondo multipolare privo di regole e buon senso. Non un “nuovo ordine mondiale”, ma piuttosto un disordine permanente, in cui la guerra torna a essere un’opzione politica legittima. In questo senso, l’anarchia regnante non equivale ad assenza di potere, ma a moltiplicazione di poteri che si contendono spazi e influenza, senza però riconoscere limiti comuni.
La sfida per le democrazie è enorme: ricostruire la credibilità di un modello che appaia non più come un’imposizione, ma come alternativa concreta e (soprattutto) desiderabile. Per farlo, non basteranno i carri armati o le sanzioni economiche; servirà una nuova capacità di visione, la riscoperta della forza dei diritti umani, del multilateralismo, della cooperazione internazionale.
Senza questo sforzo, il mondo rischia di scivolare definitivamente in un’epoca in cui la forza detta legge e la libertà resta un privilegio di pochi. Ma un mondo senza regole non conviene a nessuno, nemmeno a coloro che credono di trarne vantaggio. Perché sulla Terra ci sarà sempre qualcuno disposto a violare le regole più di quanto già non lo faccia tu.