C’è un filo rosso che unisce due delle vicende digitali più discusse degli ultimi mesi in Italia: il gruppo Facebook “Mia moglie” e il forum “Phica”. In entrambi i casi, migliaia di uomini hanno usato immagini di donne, quasi sempre a loro insaputa, come merce di scambio per rafforzare legami di gruppo e ottenere riconoscimento. Non pornografia in senso stretto, ma rituali collettivi costruiti sullo svilimento dei corpi femminili. Prima, una comunità Facebook in cui circolavano foto private di mogli, compagne o conoscenti, spesso accompagnate da commenti volgari e denigratori. Poi, un forum online dove lo schema si ripeteva, trasformando quelle immagini in materia prima per un senso di appartenenza maschile fondato sulla complicità e sul dileggio. Non erano spazi marginali, ma luoghi frequentati da decine di migliaia di utenti: uomini qualunque, padri, colleghi, amici. Non mostri isolati, ma una massa che ha mostrato quanto il corpo femminile in rete venga trattato come strumento per rinsaldare legami tra uomini. Dietro la patina di goliardia, è emerso qualcosa di più profondo: il bisogno di riconoscimento reciproco, ottenuto umiliando l’altro sesso.
Umiliazioni online
Le indagini hanno fatto emergere la portata del fenomeno. Nel gruppo “Mia moglie”, attivo dal 2019 e arrivato a oltre 32 mila iscritti, più di 2.800 donne hanno scoperto che immagini intime — rubate, scattate di nascosto o prelevate da archivi personali — erano state diffuse senza consenso e commentate con linguaggio sessista e violento. A seguito delle denunce e di una mobilitazione pubblica che ha coinvolto associazioni e migliaia di firmatari di una petizione, Meta ha chiuso il gruppo. La Procura di Roma ha aperto un fascicolo che potrebbe sfociare in un maxi-processo per reati che vanno dal revenge porn alla diffamazione aggravata, fino alla violazione della privacy, mentre si indaga anche sulla migrazione dei contenuti verso canali alternativi come Telegram.
Diversa, ma collegata, la vicenda di “Phica”, forum attivo da quasi vent’anni, in cui non solo donne comuni, ma anche figure pubbliche — politiche, giornaliste, influencer — venivano esposte attraverso immagini manipolate o estratte dai social, accompagnate da offese e commenti sessualizzati. Sotto la pressione dell’opinione pubblica e del dibattito politico, i gestori hanno annunciato la chiusura del sito: una decisione tardiva, che non cancella la loro piena responsabilità per aver permesso per anni la proliferazione di violenze e umiliazioni senza alcun controllo. La polizia postale sta ora lavorando all’identificazione degli amministratori e degli utenti più attivi, valutando anche ipotesi di reato come l’estorsione.
Violenza sistemica
Un punto cruciale riguarda la risposta delle istituzioni e della società civile. Se da un lato le inchieste giudiziarie hanno acceso i riflettori sul fenomeno, dall’altro il dibattito pubblico mostra ancora lentezze e reticenze. Il quadro normativo italiano, pur avendo introdotto nel 2019 il reato di “diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso delle persone rappresentate” (cosiddetto revenge porn), si trova oggi davanti a una sfida più ampia: distinguere tra casi individuali e pratiche di massa, in cui la violenza diventa sistemica.
È difficile perseguire migliaia di utenti, eppure la diffusione capillare di questi contenuti richiede risposte nuove, capaci di unire giustizia penale, prevenzione culturale ed educazione digitale. Un altro fronte è quello delle piattaforme. Meta, Telegram, i forum indipendenti: ogni ambiente digitale si trasforma in spazio di rischio se manca una responsabilità concreta di chi gestisce. Le multinazionali del web reagiscono spesso solo a seguito di scandali mediatici, e i tempi di rimozione sono incompatibili con la rapidità con cui le immagini si propagano. La logica algoritmica, orientata al coinvolgimento — e al profitto, finisce per alimentare la viralità di contenuti scandalistici, rafforzando quella spirale di complicità che dovrebbe invece essere contrastata.
Queste vicende mostrano che, negli spazi online, il corpo femminile non è più soltanto oggetto di desiderio individuale: diventa strumento di legittimazione reciproca tra uomini. Una dinamica che non è affatto episodica, ma si ripete in forme diverse e coinvolge uomini comuni, non profili marginali. È proprio la sua diffusione a renderla significativa: non un’anomalia, ma un meccanismo che si sta normalizzando. Secondo l’Osservatorio Vox sull’odio online, oltre metà dei contenuti violenti che circolano in rete ha radici misogine. Le immagini vengono sottratte al loro contesto, condivise senza consenso, trasformate in carne da macello: a quel punto arrivano catene di insulti, battute sessuali, fantasie di dominio. Lo schema è ricorrente: prendere un corpo reale e ridurlo a caricatura, bersaglio, superficie sulla quale proiettare disprezzo e violenza.
Riti collettivi d’appartenenza
L’aspetto più inquietante non è solo la violenza in sé, ma la sua banalizzazione. Non parliamo di pochi individui deviati, ma di migliaia di uomini che considerano queste pratiche innocue. «Sono solo foto»; «È uno scherzo»: così si giustificano, riducendo l’abuso a intrattenimento. È in questa leggerezza apparente che si annida il problema. La violenza diventa consuetudine, un rito collettivo che trova forza nel numero e nella condivisione. Non serve essere estremisti: basta partecipare, commentare, ridere insieme. È così che il gesto perde gravità agli occhi di chi lo compie, mentre resta intatto — e amplificato — per chi lo subisce. Quando la comunità incoraggia e applaude, la responsabilità individuale si dissolve. L’umiliazione diventa routine, la violenza linguistica un sottofondo ordinario della vita digitale. Non siamo di fronte a una patologia marginale, ma a un fenomeno sociale e culturale: il corpo femminile trasformato in collante di gruppo, in rito di appartenenza, in spettacolo di dominio.
In questo meccanismo il desiderio sessuale diventa secondario. Non è il rapporto intimo tra uomo e donna a contare, ma la conferma reciproca tra uomini. Le immagini femminili funzionano come moneta simbolica, trofei da esibire, prove di virilità da esporre al giudizio dei pari. Non il piacere individuale, ma il riconoscimento collettivo. Il digitale amplifica questa dinamica: come uno spogliatoio virtuale che però non si svuota mai, lascia tracce permanenti. Foto e commenti restano accessibili, si moltiplicano, continuano a umiliare anche quando chi li ha caricati ha smesso di pensarci.
Urgenza culturale
Ma il tema non si esaurisce nella repressione. C’è un’urgenza culturale: come educare le nuove generazioni a riconoscere la violenza non soltanto quando assume forme esplicite, ma anche quando si traveste da gioco o goliardia? A scuola e nei luoghi di socializzazione manca spesso un linguaggio condiviso per affrontare il tema del consenso, del rispetto dell’intimità, della differenza tra desiderio e dominio. Se il corpo femminile continua a essere percepito come terreno di conquista, il problema non si risolve spegnendo un forum, ma decostruendo narrazioni di lunga durata.
Il quadro che emerge è quello di una maschilità fragile, che fatica a ridefinirsi. Non un’identità costruita sul rapporto paritario, ma sulla riduzione dell’altro a oggetto di controllo. Un modello che per sentirsi forte ha bisogno di degradare e dominare, di trasformare l’autonomia femminile in materia prima per ribadire gerarchie.
Oggi il clima intorno alle questioni di genere è segnato da tensione e polarizzazione. Il risentimento maschile non è residuale, ma diffuso, e spesso minimizzato. L’offesa sessuale resta la scorciatoia più immediata per ridurre la forza di una donna, trasformarla in bersaglio e ridimensionarne l’autorevolezza. Molti uomini si confrontano con donne sempre più autonome e autodeterminate: un cambiamento che ha incrinato privilegi dati per scontati. La risposta, troppo spesso, è l’umiliazione verbale, un modo rapido per riaffermare una supremazia che nella realtà delle relazioni appare fragile. Non sorprende che le figure più colpite siano spesso donne pubbliche: politiche, giornaliste, manager. Vengono riportate «a terra» attraverso la caricatura sessuale, ridotte a feticcio per scalfirne l’autorevolezza e riaffermare ruoli che nella società reale vacillano.
In questo contesto, uno dei riflessi più ricorrenti è il «not all men»: la precisazione, quasi automatica, che non tutti gli uomini si comportano così. Un’affermazione apparentemente innocua, che però finisce per spostare il discorso dal piano collettivo a quello individuale, trasformandolo in una difesa preventiva. È qui che diventa cruciale distinguere tra colpa e responsabilità: la colpa riguarda chi commette direttamente un abuso, chi scatta e diffonde immagini, chi insulta o minaccia. La responsabilità, invece, chiama in causa anche chi non agisce, ma tace, minimizza, o si rifugia nell’idea che «il problema siano gli altri». Confondere i due piani significa auto-assolversi e lasciare intatta la struttura che rende possibile la violenza.
Strumento di controllo
Il nodo centrale, dunque, non riguarda soltanto le vittime, ma gli autori e, più in generale, gli uomini. La trasformazione culturale necessaria non può che passare attraverso una presa di coscienza maschile, una messa in discussione dei modelli di virilità tramandati per secoli. Per ora, questa disponibilità sembra limitata a una minoranza. Finché non si aprirà un percorso collettivo di riflessione e responsabilità, l’emancipazione femminile continuerà a essere percepita come una minaccia. E davanti a quella minaccia, il rischio è che prevalga ancora la risposta più antica e interiorizzata: la violenza come strumento di controllo.
Queste vicende vanno ben oltre la cronaca giudiziaria o la devianza online e sono un specchio della nostra società. Rivelano che la battaglia per l’uguaglianza non si gioca solo nei parlamenti o nelle aziende, ma anche — e forse soprattutto — negli spazi digitali quotidiani, dove si formano i linguaggi, le appartenenze, i gesti che modellano la cultura comune. Affrontarle significa interrogarsi sul futuro delle relazioni di genere e sull’urgenza di fondarle su rispetto, riconoscimento reciproco e responsabilità condivisa.