Gastone Breccia

Afghanistan: lo storico militare Gastone Breccia spiega a TPI chi ha riempito il vuoto geopolitico lasciato dagli Usa

«Loro combattono con i sandali e i fucili, voi combattete corazzati e sganciate bombe dal cielo su qualsiasi cosa si muova; loro non hanno paura di morire, voi avete paura di morire; loro vinceranno, ed è giusto così». La previsione di un capo-villaggio afghano, riportata dallo storico militare dell’Università di Pavia Gastone Breccia nel suo libro “Missione Fallita” (Il Mulino, 2020), si è avverata e così, dopo quattro anni dal ritiro delle truppe Usa e Nato dall’Afghanistan, i talebani governano saldamente e col terrore a Kabul, da dove cercano di legittimarsi anche attraverso il coordinamento degli aiuti per il recente terremoto. «L’errore decisivo è stato voler cambiare il Paese secondo i nostri principi ma la cultura afghana è profondamente diversa: è fondata su legami di fedeltà ai capi locali che esercitano il loro potere offrendo sicurezza, servizi e persino posti di lavoro», spiega Breccia a TPI, secondo cui l’ultima tragedia offre ai fondamentalisti un’occasione unica. «Non sono come al-Qaeda, non hanno mostrato la volontà di esportare la propria minaccia verso l’esterno: se giocano bene le loro carte potrebbero riuscire ad accreditarsi a livello internazionale», aggiunge lo storico, che sottolinea anche l’interesse sull’Afghanistan delle grandi potenze della regione, alimentato dall’abbandono del campo da parte occidentale. «Il vuoto non dura. Né in natura né in politica».

Il capo-villaggio afghano ci aveva visto lungo. Cosa sapeva che i nostri governi ignoravano?
«È una questione di distanza culturale. La società afghana si fonda su legami di fedeltà ai capi locali, che tessono la propria tela di potere, offrendo sicurezza, servizi e persino posti di lavoro. Qualcosa di profondamente diverso da come gli occidentali pensavano di gestire il futuro dell’Afghanistan».
Cosa abbiamo sbagliato?
«Nel 2001 gli americani entrarono nel Paese con una serie di motivazioni, su cui si può discutere, ma che erano abbastanza chiare: punire i talebani e catturare Osama Bin Laden dopo gli attentati dell’11 settembre. La campagna condotta tra l’ottobre e il dicembre di quell’anno era stata coronata da successo, sia dal punto di vista militare che del consenso, visto che i talebani erano stati effettivamente colpiti da forze locali, senza l’intervento massiccio di truppe straniere, se non di poche unità speciali. A quel punto però è avvenuto un passaggio cruciale, che in termini anglosassoni si definisce “mission creep”, ovvero lo scivolamento della missione verso altri obiettivi».
Quali?
«Dopo aver vinto la guerra nei primi due mesi, invece di stringere la mano ai capi locali e di assicurare loro sostegno economico e militare lasciandogli in mano il destino dell’Afghanistan, si è voluto trasformare il Paese».
Come?
«Qui sta il punto: abbiamo seguito i nostri principi della democrazia rappresentativa, organizzando elezioni, costruendo istituzioni sul modello degli Stati nazionali e affidandoci, per giunta, alle persone sbagliate».
Chi?
«Non siamo andati a cercare leader politici nuovi – che sarebbe stato comunque difficile trovare – ma ci si è affidati a vecchi relitti del passato, tra cui persino criminali e sospetti trafficanti di eroina e di esseri umani, soltanto perché già detentori di un potere locale. Così è stato da subito screditato il tentativo di trasformare l’Afghanistan in un reale processo di ricostruzione politica e amministrativa e questo ha acuito il problema della sicurezza».
Come?
«Non siamo stati capaci di assicurare alla popolazione una vita tranquilla. La maggior parte degli afghani che ho incontrato non chiedevano altro che poter andare al mercato e coltivare la propria terra senza correre rischi. L’Occidente invece, come testimonia l’aneddoto del capo-villaggio afghano, non ha saputo garantire un futuro di pace».
Perché?
«I nostri soldati erano pochi e le regole d’ingaggio non permettevano di dimostrare alla popolazione quanto fossimo disposti a sacrificarci per la loro sicurezza».

L’impegno economico e militare non è mancato: soltanto gli Usa, in oltre un ventennio di guerra, hanno speso più di 2.300 miliardi di dollari.
«Eppure le forze dispiegate in Afghanistan non sono mai state sufficienti a garantire la sicurezza. Le faccio un esempio banale, che ho vissuto in prima persona nel 2011».
Ci racconti.
«Una nostra compagnia di paracadutisti doveva garantire la sicurezza di un intero settore del teatro afghano, una vasta zona di territorio, grande quanto due province italiane. La compagnia era composta da quattro plotoni: uno doveva necessariamente restare a guardia della base; un altro, tecnicamente designato come “forza di reazione rapida”, doveva essere sempre pronto a intervenire; e il terzo era di riposo. Quindi soltanto un plotone su quattro usciva ogni giorno all’esterno per scavare un pozzo; portare medicine; visitare i villaggi, etc. L’area da coprire però contava una trentina di località importanti, quindi in ognuna di queste i nostri militari potevano essere presenti tutt’al più un giorno al mese. Come mi disse un altro capo-villaggio, durante gli altri 29 giorni si presentavano i talebani, che li minacciavano prima di avvelenare i pozzi d’acqua e poi di uccidere i leader locali se avessero ancora accettato aiuti dagli occidentali. Questo ha permesso piano piano ai talebani di riprendere possesso del territorio».
I talebani, quindi, erano visti meglio degli occidentali?
«Non ho mai registrato un diffuso sostegno per i talebani tra la popolazione, né personalmente né attraverso le fonti sul campo con cui sono rimasto in contatto. Come in tutti i Paesi del mondo però le persone vogliono prima di tutto vivere senza correre il rischio di finire ammazzate. Le truppe occidentali non garantivano questa sicurezza mentre, malgrado non fossero amati da buona parte della popolazione, alla fine i fondamentalisti gliel’hanno assicurata e così hanno vinto loro. Mi ricordo anche il giorno in cui prendemmo atto della sconfitta».
Quando cadde Kabul.
«No, molti anni prima quando nel 2014 il presidente Usa Barack Obama annunciò la fine della missione e il ritiro completo delle truppe dall’Afghanistan nel giro di un paio d’anni».
Poi se lo rimangiò.
«Ma la frittata era fatta: ricordo che allora telefonai ad un amico di stanza in Afghanistan, che mi disse: “Ora sappiamo il giorno in cui perderemo questa guerra”. A quel punto gli Usa avevano fissato una data di scadenza non solo all’intervento militare ma all’effettivo sostegno agli afghani. I talebani dovevano soltanto aspettare un giorno di più per vincere e l’hanno fatto». 

La fuga dalla capitale e l’abbandono degli alleati il 15 agosto 2021 ricordò le scene della caduta di Saigon e del ritiro Usa dal Vietnam.
«Anche allora un regime sostenuto dagli americani, senza sufficiente consenso interno, collassò subito dopo il ritiro delle truppe Usa ma c’è un enorme differenza tra Kabul e Saigon».
Quale?
«Il Vietnam del Nord e i Viet Cong costituivano una potenza militare di un certo livello mentre i talebani, anche nel 2021, erano ancora poche decine di migliaia di combattenti armati alla leggera e con le infradito. Il governo afghano appoggiato dall’Occidente si è rivelato molto più debole persino dei sud-vietnamiti».
Perché non hanno resistito?
«Perché non erano capaci di prendere in mano la situazione della sicurezza e lo sapevano tutti: bastava chiederlo a un qualsiasi ufficiale della Nato in servizio in Afghanistan. E poi perché non c’era un’autorità politica che li garantisse. Sapevano che nel momento in cui l’Occidente si sarebbe tirato indietro, il governo di Kabul sarebbe crollato e loro si sarebbero ritrovati da soli alla mercé dei talebani, che a quel punto godevano anche del consenso da parte della popolazione contraria all’occupazione straniera, e contro cui di fatto non hanno neanche provato a resistere».
Quali sono stati i motivi di quella fuga tanto precipitosa?
«I primi a essere colti di sorpresa sono stati gli Usa, che non si aspettavano infatti di dover abbandonare Kabul così in fretta ma pensavano che l’esercito afghano avrebbe difeso almeno la capitale per qualche altra settimana. Ma è stato un disastro mediatico, politico e strategico per l’Occidente che, per come ha abbandonato l’Afghanistan, ha perso credibilità nei confronti dei suoi possibili alleati».
Qual è la situazione oggi?
«Oggi esiste ancora una resistenza, per lo più tagika e localizzata soprattutto attorno alla Valle del Panjshir, che si batte contro i talebani».
Ma, per dirla con le parole del segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, non rappresenta «una sfida significativa» al potere talebano.
«Ovviamente no, anche perché non è più sostenuta da nessuno».

A proposito: esiste una “lezione afghana” per l’Occidente e i suoi alleati, che hanno perso tutte le guerre combattute in questo Millennio?
«Il punto fondamentale, che vale sia per l’Afghanistan che per l’Iraq e chissà in futuro anche per l’Ucraina, è che se nei governi dei Paesi occidentali manca una volontà politica sufficientemente forte, sostenuta da un altrettanto profondo consenso interno, è non solo inutile ma addirittura dannoso impegnarsi militarmente. Proseguire l’intervento senza essere disposti a fare tutto il necessario per prevalere porta solo alla sconfitta perché ad un certo punto, per non perdere le elezioni, i politici saranno costretti a limitare fondi, armamenti e truppe. Ma è una lezione che vale dal V secolo a.C., dai tempi di Sun Tzu. Se manca una forte coesione politica, le guerre si perdono. Ecco perché l’Occidente ha fallito tutti i suoi interventi degli ultimi decenni: la forza militare è uno strumento della politica. Se quest’ultima ha le idee chiare e riesce a costruire un solido consenso allora può prevalere. Altrimenti diventa una spada spuntata».
Il risultato, in Afghanistan, è stato il ritorno al potere dei talebani, che governano col terrore. Eppure tutti sembrano dimenticarlo e, più o meno sottobanco, dialogano con Kabul. Perché?
«Per un motivo molto semplice: i talebani non sono come al-Qaeda o altre organizzazioni terroristiche di stampo fondamentalista islamico. Non hanno mostrato la volontà di esportare la propria minaccia verso l’esterno e hanno sempre ribadito di voler governare il proprio Emirato islamico, come lo chiamano loro. Chiedono aiuto per la propria economia, denunciando il rischio del collasso sociale del Paese, combattono il narcotraffico e assicurano di non ospitare più all’interno del proprio territorio organizzazioni terroristiche che preparano attentati. Per questo, se giocano bene le loro carte, potrebbero anche riuscire ad accreditarsi a livello internazionale».
Il rimpatrio dei rifugiati e l’ultimo devastante terremoto rappresentano l’occasione giusta?
«È triste dirlo ma, in un processo di lenta legittimazione internazionale, anche una tragedia di questo tipo può risultare utile: i talebani possono sfruttare la riapertura del dialogo e i nuovi contatti per reinserire il Paese in un circuito di relazioni estere».

Finora però soltanto la Russia ha riconosciuto il governo talebano. Mosca vuole riempire il vuoto lasciato dagli Usa?
«Il vuoto non dura né in natura né in politica, soprattutto in una zona tanto strategica, un crocevia fondamentale come l’Afghanistan. Ma la realtà è che, in questo momento, il Cremlino ha bisogno di tutti gli alleati che può mettere insieme».
Da Kim Jong-Un in giù vanno bene tutti?
«La Russia è pronta a cercare alleati ovunque. Con il riconoscimento del governo talebano ha messo in chiaro che avere un amico a Kabul rappresenta comunque un vantaggio e che per ottenerlo è disposta anche a chiudere un occhio su tutto il resto».
Ma il vuoto geopolitico lasciato dal ritiro degli Usa dall’Afghanistan coinvolge tanti attori: la Cina fu la prima a mandare un ambasciatore a Kabul dopo il ritorno al potere dei talebani.
«Pechino non si pone problemi ideologici, vuole fare affari. Ha bisogno, in primis, che la nuova Via della Seta passi attraverso l’Afghanistan e poi vuole che i talebani si impegnino a non aiutare le formazioni indipendentiste uigure nella confinante provincia dello Xinjang, che considera terroristi. Dal punto di vista di Kabul invece il regime è apertissimo a questa collaborazione perché, anche se in cambio la Repubblica popolare chiede molto, fornisce comunque un sostegno economico, di cui i talebani hanno grande bisogno e per cui sono disposti a pagare un prezzo elevato».
Eppure Xi Jinping non ha ancora riconosciuto ufficialmente il governo talebano. Perché?
«La Cina si sente talmente importante e potente da poter giocare una partita diversa rispetto, ad esempio, alla Russia. Non si abbassa a riconoscere un governo ancora considerato un paria dal resto del mondo. Nella sua grande strategia Pechino può considerare l’Afghanistan una partita secondaria. Utile come territorio da attraversare per i commerci e le vie di comunicazione ma non certo in cima alle sue preoccupazioni».
Ma allora chi ha riempito il vuoto lasciato dall’Occidente in Afghanistan?
«Le potenze che oggi si giocano il controllo di quella zona sono, essenzialmente, Pakistan e India, con la Cina che monitora l’evoluzione degli avvenimenti».
I rapporti tra il Pakistan e i talebani, suoi ex alleati, sono ai minimi storici.
«Il fatto che in questo momento le relazioni con Kabul siano così in crisi mostra che Islamabad ha certamente sbagliato qualcosa. Tra tutti il Pakistan è l’attore con il maggiore interesse nell’area. La sua profondità strategica rispetto a un eventuale conflitto con l’India, il suo rivale storico, dipende dal poter contare su un Afghanistan amico. Pertanto penso che prima o poi il governo pakistano tornerà a fare di tutto per recuperare i rapporti con Kabul. Anche solo per evitare che tutto questo vada a vantaggio di New Delhi».
Anche il vicino Iran è della partita?
«Teheran è un po’ nella stessa situazione di Islamabad. Non ha bisogno di una profondità strategica in Afghanistan quanto il Pakistan ma considera il Paese un po’ la sua retrovia. Senza dimenticare l’importanza che il vicino rappresenta come luogo di passaggio di traffici commerciali, più o meno leciti, verso il resto della regione. Dopo oltre quarant’anni di sanzioni internazionali, ogni via di comunicazione e di scambio con l’estero diventa vitale».
Pakistan, Iran, Russia: tutte queste potenze convergono sempre più verso Pechino, che finora però ha aiutato soltanto Mosca in Ucraina, lasciando a se stesse Islamabad e Teheran contro India e Israele e Usa. Perché?
«L’intervento cinese in questi teatri sarebbe stato inopportuno e prematuro rispetto alla sua strategia di ascesa globale».
Qual è la lezione per i nuovi alleati della Cina?
«L’invito alla prudenza. In questo nuovo sistema di alleanze dev’essere chiaro che chi comanda sono i cinesi, che non sono certo disposti a farsi trascinare in guerre altrui. Prima di prendere grandi decisioni quindi e di sparare anche un solo colpo, queste potenze devono prima confrontarsi con Pechino, se poi vogliono godere del suo sostegno».

Share:

Facebook
Twitter
Pinterest
LinkedIn

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

On Key

Related Posts