Afghanistan

“Come uccelli in gabbia”: due testimoni raccontano a TPI come l’Afghanistan sia tornato una prigione per le donne

In Afghanistan la condizione femminile è precipitata dopo il ritorno al potere dei talebani nell’agosto 2021. In pochi mesi sono stati cancellati diritti fondamentali conquistati nei vent’anni precedenti. Da allora i talebani hanno emanato centinaia di editti che colpiscono direttamente le donne e le ragazze, creando un vero e proprio sistema di segregazione di genere che molti osservatori internazionali definiscono “apartheid di genere”. Ne è derivato un contesto in cui metà della popolazione è stata privata della possibilità di studiare, lavorare, muoversi liberamente e partecipare alla vita sociale del Paese. La libertà di movimento è stata tra le prime a essere limitata: per viaggiare, soprattutto su lunghe distanze, le donne devono farsi accompagnare da un familiare maschio. Uscire di casa significa inoltre sottostare a rigide norme sull’abbigliamento: corpo e volto devono essere coperti integralmente con burqa o abaya, e la responsabilità di eventuali violazioni ricade anche sugli uomini della famiglia. Alle donne è stato negato l’accesso a gran parte degli spazi pubblici, dai parchi alle palestre, dai bagni ai saloni di bellezza, fino ai siti storici. Ancora più grave è stata la chiusura delle scuole secondarie e delle università, che rende l’Afghanistan l’unico Paese al mondo a impedire formalmente alle ragazze di proseguire gli studi oltre la scuola primaria. Sul fronte del lavoro, la presenza femminile è stata quasi del tutto cancellata: alle donne è vietato lavorare nelle amministrazioni statali, nelle ong e persino nelle agenzie delle Nazioni Unite. Anche le strutture legali create in passato per la loro protezione sono state smantellate. Persino la voce femminile è considerata pericolosa: parlare in pubblico, cantare o semplicemente farsi sentire fuori dalle mura domestiche può comportare punizioni.

Giustizia e salute negate
Oltre alle restrizioni sulla vita pubblica, i talebani hanno trasformato il sistema giudiziario in uno strumento di oppressione. La Costituzione del 2004 è stata sospesa e le leggi che tutelavano le donne dalla violenza cancellate. Circa 270 giudici donne sono state allontanate e sostituite da uomini che applicano editti religiosi, spesso senza alcuna formazione giuridica. Le avvocate, le procuratrici e tutte le professioniste del diritto sono state estromesse, cancellando in pochi mesi anni di faticosa costruzione di competenze. Per le donne, questo significa non avere più alcun accesso a una giustizia imparziale: denunce di violenze domestiche o matrimoni forzati non trovano ascolto, e la giustizia informale – dominata dagli uomini – è rimasta l’unica via percorribile. La stessa logica di esclusione si riflette nel settore sanitario. Negli ultimi anni i talebani hanno vietato la formazione di infermiere e ostetriche, pur impedendo alle donne di farsi curare da medici uomini. In un Paese già segnato da alti tassi di mortalità materna e infantile, queste scelte rischiano di aggravare una crisi sanitaria drammatica. Ospedali e cliniche sono sovraffollati, ma per le donne l’accesso alle cure di base diventa sempre più difficile, e spesso è negato del tutto.
Il recente terremoto, che ha provocato oltre 2.200 morti e circa 3.600 feriti, ha reso ancora più evidente la vulnerabilità delle donne afghane. Nei villaggi colpiti, intere famiglie hanno perso la casa e l’accesso ai servizi essenziali, ma per le donne la situazione si è fatta ancora più drammatica. Da un lato, la scarsità di personale sanitario femminile – conseguenza diretta dei divieti imposti dai talebani sulla formazione e sul lavoro delle donne – significa che pochissime mediche, infermiere o ostetriche sono disponibili per assistere le vittime. Dall’altro, le rigide norme religiose e sociali vietano ai medici uomini di toccare o curare liberamente una donna senza la presenza di una sanitaria donna o di un familiare maschio. In un contesto di emergenza, dove la rapidità delle cure può fare la differenza tra la vita e la morte, questo diventa un ostacolo insormontabile.
Molte donne ferite sono state costrette ad attendere ore prima di ricevere assistenza, oppure sono state curate solo parzialmente, con il rischio di complicazioni permanenti. Nei campi provvisori allestiti per i sopravvissuti, la separazione degli spazi tra uomini e donne rende ancora più difficile distribuire beni di prima necessità come tende, cibo e acqua. Le donne che hanno perso il marito o non hanno un accompagnatore maschio si trovano in una condizione di isolamento quasi totale, senza la possibilità di chiedere aiuto o muoversi liberamente per raggiungere i centri di soccorso. In questo modo, la tragedia naturale si intreccia con l’apartheid di genere già in atto: mentre tutta la popolazione soffre le conseguenze del sisma, le donne vengono colpite due volte, dalle macerie e dalle leggi che le condannano all’invisibilità.

La storia di Horia
Horia ha 20 anni e vive a Kabul. Ci ha raccontato cosa significa oggi essere donna in Afghanistan: niente scuola, niente lavoro, niente libertà di movimento. «Ho 20 anni e vivo a Kabul, la capitale dell’Afghanistan. Dopo il diploma di scuola superiore, sto cercando di sostenere l’esame di lingua inglese e studio tedesco da autodidatta. Ma qui tutto è cambiato dopo il 2021. Nella nostra lingua c’è un proverbio: parliamo di un “cambiamento di 180 gradi”. Ecco, è quello che è successo al mio Paese. Non è solo difficile per le donne, ma anche per gli uomini. Ma per noi ragazze non ci sono più diritti, nessuno. Il diritto all’istruzione? Negato. Le scuole superiori e le università sono chiuse alle ragazze: ci fermiamo alla sesta classe, poi basta, restiamo a casa. Il diritto al lavoro? Inesistente. Chi governa sostiene che le donne siano nate solo per servire gli uomini, avere figli e occuparsi delle faccende domestiche».Ci conferma che nemmeno uscire di casa è permesso senza un uomo accanto. «Se una ragazza e un ragazzo camminano insieme devono dimostrare con documenti che sono padre e figlia, fratello e sorella, oppure marito e moglie. E l’hijab è obbligatorio: burqa nero o tradizionale. Chi non lo indossa rischia la prigione, e perfino il padre viene interrogato». Una condizione che conduce molte donne alla depressione e alla disperazione. «Molte ragazze non vedono più alcun senso nella vita. Prima del 2021 era diverso: le scuole e le università erano aperte a tutti, le donne iniziavano a lavorare fuori casa. Oggi resta una sola scelta: il matrimonio. Ho visto ragazze di 15 o 16 anni sposarsi con uomini di 30. Anche la mia famiglia aspetta che io mi sposi, come è accaduto a mia sorella. Mia madre mi vorrebbe libera, ma sa che qui non posso costruirmi un futuro. Nessuno ha il coraggio di protestare: chi alza la voce viene imprigionato o ucciso. Noi donne siamo come uccelli in gabbia: possiamo solo mangiare, dormire e sposarci. Ma io sogno altro. Vorrei diventare avvocata, indossare la toga e pronunciare giudizi giusti. Restare a Kabul per tutta la vita? Con questa situazione, mai. Per me, sarebbe peggio della morte». La prima stretta ha riguardato l’istruzione: alle ragazze è consentito frequentare la scuola solo fino alla sesta classe, dopodiché devono restare a casa. Le università sono off-limits, così come i corsi privati o di formazione. Anche il lavoro è ormai precluso. Le donne non possono più essere impiegate nella pubblica amministrazione né nelle ong internazionali, se non in rari casi legati al settore sanitario. La conseguenza è pesante: intere famiglie hanno perso una parte importante del loro reddito. La libertà di movimento è ridotta al minimo. Come detto in precedenza, nessuna donna può uscire da sola: per qualsiasi spostamento è necessaria la presenza di un parente maschio. In parallelo, sono state vietate attività ricreative come l’accesso a parchi, palestre e spazi pubblici. Sul fronte dell’abbigliamento, le regole sono rigidissime. L’uso del burqa, o comunque di indumenti che coprano interamente il corpo, è obbligatorio. Chi non rispetta le disposizioni rischia l’arresto, mentre i familiari maschi vengono interrogati.A questo si aggiunge l’esclusione dalla vita politica e culturale: le donne sono praticamente sparite dai media, ridotte al silenzio nello spazio pubblico. Le conseguenze psicologiche sono gravi: secondo testimonianze e rapporti internazionali, ansia e depressione sono in forte aumento, insieme a casi di suicidio tra giovani ragazze.

Resistenza clandestina
Eppure, nonostante un sistema così soffocante, continuano a emergere spazi di resistenza. In diverse province sono nate scuole segrete organizzate nelle case private, oppure lezioni a distanza attraverso WhatsApp e Google Meet, grazie a insegnanti che non hanno voluto arrendersi. Alcune reti, coordinate dall’estero, riescono a garantire istruzione a migliaia di ragazze, dimostrando che il desiderio di conoscenza non può essere soffocato da un decreto. Anche i saloni di bellezza, chiusi per ordine dei talebani, riaprono clandestinamente dietro porte anonime: non solo luoghi di lavoro, ma spazi dove le donne possono incontrarsi, parlarsi, sentirsi parte di una comunità. Questi gesti, pur fragili e rischiosi, sono fondamentali. Frequentare una scuola segreta o un salone nascosto significa mettere in pericolo la propria vita, ma per molte donne rappresenta l’unico modo per non farsi cancellare del tutto dalla società. La resistenza quotidiana non passa da manifestazioni pubbliche – impossibili sotto la minaccia di arresti e violenze – ma da piccoli atti di coraggio che tengono viva la speranza di un futuro diverso. È una resilienza silenziosa, che racconta meglio di ogni decreto la forza e la determinazione di chi continua a credere nella libertà. L’Onu ha definito l’Afghanistan «il Paese più repressivo al mondo per le donne». Un primato che fotografa con chiarezza un contesto dove metà della popolazione è stata relegata ai margini, privata di istruzione, lavoro e libertà di scelta.

Il fiore resistente
Farida ha 23 anni e anche lei vive a Kabul. Studia sartoria, l’unico modo che ha trovato per aiutare se stessa e la propria famiglia, dopo che l’accesso all’università le è stato negato. Era una studentessa di architettura. «Studiavo architettura, era il mio corso preferito. Il mio sogno resta quello di diventare architetto», racconta a TPI. Oggi, però, quel percorso si è interrotto bruscamente: «Hanno chiuso l’università per le ragazze afghane. Noi non possiamo studiare, mentre le donne straniere che vengono in Afghanistan per un tour hanno piena libertà». La sua testimonianza restituisce uno spaccato della vita quotidiana sotto il regime talebano. Le restrizioni sono sempre più dure: «Questo mese più ragazze sono state arrestate perché non indossavano la mascherina, nonostante portassero l’hijab. Io stessa devo indossare il burqa ogni volta che esco, altrimenti non è possibile muoversi». Nonostante le difficoltà, il desiderio di costruirsi un futuro non si spegne. «Non voglio vivere in Afghanistan in questa situazione. Faccio del mio meglio per andare in un altro Paese e perseguire il mio obiettivo», ci spiega. La sua famiglia, racconta, l’ha sempre sostenuta: «Mi hanno incoraggiata a essere libera e indipendente, prima che tutto questo accadesse. Ora, però, la mentalità dominante è l’opposto della libertà femminile». Il suo sguardo si allarga alle speranze condivise da tante ragazze come lei: «Tutte noi donne afghane vogliamo essere libere di studiare e lavorare. Speriamo di avere pari opportunità di istruzione e di scelta nella vita, di poter sognare senza barriere. Ovunque siano, le nostre voci devono essere ascoltate». Alla domanda se si senta tradita dall’Occidente, risponde con parole semplici ma nette: «Sì, siamo state ferite. Sappiamo che questa situazione è dura per tutte noi, ma crediamo ancora in voi. Per favore, non dimenticateci. Non abbandonateci». Intanto, le sue giornate scorrono tra lo studio dell’inglese, la lettura dei libri comprati dal padre, i lavori domestici e le lezioni di sartoria imparate dalla madre. «Cerco di non fermarmi», dice. E, nonostante tutto, continua a coltivare la speranza di un futuro diverso.

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