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Cara Elly, un altro mondo 
è possibile (di R. Bertoni)

«Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia». Cento anni fa nasceva don Lorenzo Milani, il sacerdote anticonformista che venne mandato praticamente in esilio a Barbiana dalle gerarchie ecclesiastiche e lì seppe inventare un modello di scuola profetico e rivoluzionario. Ci viene in mente a proposito della meritoria battaglia di ragazze e ragazzi che, in queste settimane, si sono accampati con le tende davanti alle facoltà universitarie per protestare contro il caro affitti che discrimina i fuori sede e lede il diritto allo studio di chi viene dal basso. Ma solo di questo si tratta?

Una tragica illusione

In quelle tende sono racchiusi i sogni e le speranze di una generazione ribelle. Si può anche sminuire questa protesta, ci si può limitare a guardare il dito o pensare, come cantava De André nella “Canzone del maggio”, che, in fondo, «Non sta succedendo niente / le fabbriche riapriranno / arresteranno qualche studente / convinti che fosse un gioco / a cui avremmo giocato poco», ma sarebbe una tragica illusione.

Ventidue anni fa, a Genova, nei barbari giorni del G8, lo slogan del movimento alter-globalista recitava: «Un altro mondo è possibile». Ebbene, questa è la prima volta, due decenni dopo, che ci sembra di rivedere quello spirito. Ora che la globalizzazione senza regole viene messa in discussione persino da Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale di Biden, ora che Lucio Caracciolo dedica al “mondo dopo la globalizzazione” un notevole numero di Limes, intitolato “Il bluff globale”, ora che ci troviamo a fare i conti con un pianeta devastato dagli errori epocali che vennero compiuti dopo l’89, ora dobbiamo unire i puntini. L’ambiente, il paesaggio, il territorio, lo sviluppo sostenibile, la lotta contro l’esaltazione del merito, inteso non come ascensore sociale ma sostanzialmente come una forma di darwinismo, che come ovvia conseguenza ha l’esclusione dei più deboli, il rifiuto di una valutazione che si è trasformata in uno stigma e tutto il corollario delle proteste giovanili degli ultimi anni: di fronte a questo insieme di temi, tutti di grande attualità, non si può non vedere il filo rosso che li unisce. Non siamo al cospetto di manifestazioni isolate o di richieste settoriali ma di un movimento globale, che tiene insieme Greta Thunberg e Vanessa Nakate, la Svezia e l’Uganda, il Nord e il Sud del mondo, a dimostrazione che le questioni sono internazionali e investono, per l’appunto, il modello di convivenza che vogliamo adottare.

I figli della generazione di Seattle e di Genova pongono nuovamente al centro la questione di una globalizzazione che non deve essere accantonata, perché sarebbe una tragedia, per giunta foriera di nuove possibili guerre, bensì regolamentata, ponendo gli esseri umani al di sopra delle merci e degli interessi delle banche e della finanza. Non vedere tutto questo sarebbe un errore di analisi storica imperdonabile.

Cambiare la legislatura

La destra, a cominciare dai suoi giornali, inizialmente ha bombardato queste iniziative studentesche, irridendole con riflessioni ed editoriali velenosi. Dalle parti di Palazzo Chigi, tuttavia, almeno la ministra dell’Università Bernini, donna conservatrice ma dotata di particolare intelligenza, si è resa conto che questo movimento potrebbe cambiare le sorti della legislatura.

Perché ormai non si contano più i casi di studenti e studentesse che contestano il sistema liberista ed escludente durante le inaugurazioni dell’anno accademico, non si contano più gli appelli e le manifestazioni contro l’alternanza scuola-lavoro, non si contano più le critiche ai test Invalsi; insomma, tutto l’armamentario tipico dell’ideologia tecnocratica sta crollando miseramente.

E a metterlo in discussione è la generazione che più di tutte ne paga il prezzo, sotto forma di una scuola che non si prende cura degli svantaggiati, di un’università che non ha rispetto per chi è nato indietro, e di fatto non è alla portata di chiunque, e di un mondo del lavoro segnato dal precariato esistenziale. In poche parole, i ventenni di oggi si battono contro un’idea di società che non tiene in alcun conto la fragilità degli ultimi ed esalta il vincismo dei più forti, costituendo l’antitesi dei principii costituzionali.

Che fare

E qui entra in gioco la segretaria del Pd. Cara Elly Schlein, è a te che ci rivolgiamo nella parte conclusiva di questo articolo. E ci rivolgiamo a te perché abbiamo apprezzato il tuo sostegno al movimento delle tende, così come intravediamo uninversione di rotta del tuo partito rispetto al passato. Sono cambiate le parole d’ordine, le frequentazioni e gli interlocutori, sono tornate le piazze e i giovani e, guarda caso, anche i sondaggi sono migliorati, al pari del numero dei tesserati e della partecipazione alla vita interna di un soggetto che, lo scorso autunno, sembrava davvero destinato all’estinzione. Tutto ciò è tanto ma ancora non basta. E non basta perché adesso, da parte tua, occorre un atto berlingueriano. Se il Pci, alle politiche del ’76, prese il 34,4 per cento, corrispondente a oltre dodici milioni di voti, è perché Enrico Berlinguer ebbe il coraggio di rivolgersi alle ragazze e ai ragazzi del ’68 e dire loro: «Venite dentro e cambiateci!». Seppe, cioè, prendere per mano una parte di quella generazione e valorizzarla adeguatamente. E così, ai voti dei vecchi partigiani, degli operai e del blocco sociale che storicamente si riconosceva nei valori di quel partito, si aggiunsero i protagonisti degli anni del boom e del benessere. Padri e figli, e ovviamente anche madri e figlie, nel decennio delle grandi riforme che introdussero il divorzio e l’aborto, decisero di camminare insieme, nonostante fossimo nel bel mezzo di una stagione segnata dalla contestazione giovanile e da fenomeni drammatici come il terrorismo.

La passione ce la sta mettendo, l’entusiasmo pure, ma ora a Elly Schlein serve la politica. Trasformare una protesta sacrosanta in un’altra idea di società da opporre a questa destra è la sfida più grande, la missione che, per dirla sempre con Berlinguer, «può riempire degnamente una vita».

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